Brexit, globalizzazione, localizzazione,...e la Sardegna



Il voto nel referendum britannico che ha deciso l'uscita dall'Unione Europea, è stato visto come una rivolta contro la globalizzazione. Le zone periferiche che hanno perso le industrie che davano lavoro a tanti, e che, nello stesso tempo, hanno visto l'influsso di beni fabbricati in Cina o Vietnam, e l'arrivo di immigrati pronti a lavorare per lunghe ore per ottenere il salario minimo, avrebbero convinto queste regioni a "riprendere il controllo" sul loro paese.

Ma la globalizzazione è un fenomeno complesso. Sicuramente non è un fenomeno unidirezionale: non va solo in un senso. Se è vero che con la globalizzazione diventa più facile importare prodotti da altri paesi dove il costo del lavoro è molto più basso, è anche vero che unendo competenze locali con l'innovazione, prodotti da una una regione europea possono essere venduti con successo in altre parti delmondo. Oppure, se è vero che molti paesi subiscono l'influenza dei modelli culturali americani o anglosassoni, è anche vero che quei modelli possono essere usati per creare storie radicate nella cultura e storia locale, ma che hanno la possibilità di affascinare un pubblico internazionale (vedi il successo di produzioni televisive danesi come Borgen).

 Il problema è che l'uscita dall’UE difficilmente arresterà gli effetti perversi della globalizzazione, ma, al contrario, priverà le regioni "periferiche" del Regno Unito della possibilità di usare la globalizzazione a proprio vantaggio, come questo articolo spiega efficacemente.

Una struttura come l'UE che sta al di sopra degli stati, significa infatti che regioni "periferiche" e "minoritarie" all'interno dello stato hanno altri canali per creare opportunità economiche e ricevere fondi. Per quanto imperfetta, l'Unione Europea ha rappresentato un veicolo per diverse regioni per coordinarsi con altre regioni, per affermare i propri interessi economici, e per ricevere fondi per progetti importanti (per es. i fondi strutturali europei). L'esistenza di una struttura al di sopra dello stato permette almeno di avere uno spazio dove le regioni possono "giocare le proprie carte" in uno scenario globale, senza dover passare attraverso il controllo e la mediazione dello stato centrale (a Londra, come a Madrid o a Roma).

Uscire dall'UE e ridare il controllo a Londra, significherà probabilmente un maggiore accentramento di risorse, talenti, e investimenti nella capitale. Gli interessi di regioni "centrali" e maggioritarie come Londra saranno semplicemente troppo forti per immaginare che le regioni periferiche come Cornovaglia o Galles riusciranno a far valere i propri interessi: e in più, con l'uscita dall'UE, queste regioni non avranno un'altra piattaforma dove poter giocare le proprie carte.


 Non a caso, la Scozia ha votato nettamente a favore di rimanere parte dell’UE. Questo attaccamento alle istituzioni Europee non è un ideologico o romantico. La Scozia, avendo creato istituzioni locali che lavorano per gli interessi scozzesi, ha infatti usato le opportunità offerte dall'Unione Europea e la globalizzazione. Da quando ha riottenuto un parlamento e un governo locale, la Scozia ha infatti creato opportunità stabilendo uffici nelle istituzioni europee, facendo lobbying in Europa per far valere i propri interessi, riconoscendo le opportunità che l’Europa offriva, e connettendo la propria economia con quella di altre regioni in Europa. E ha fatto questo spesso agendo indipendentemente, aggirando il controllo e la mediazione di Londra. Insomma, la Scozia ha saputo trovare un ruolo per sè nell'UE, usando questa struttura come una piattaforma per connettersi con il resto d’Europa, badando ai propri interessi indipendentemente da Londra.

La Sardegna in questo gioco sembra ancora estremamente in ritardo, sia per poca frequentazione delle istituzioni europee, sia per mancanza di aspirazioni nel voler rappresentare direttamente gli interessi della Sardegna in contrasto con quelli del “governo amico” di turno a Roma. Gli indipendentisti sembrano anch’essi impreparati, troppo impegnati forse a occuparsi di questioni identitarie. Molti sembrano anche visceralmente ostili all'Unione Europea. Ma, sebbene non perfetta, una struttura sovra-statuale come l'UE è necessaria per creare opportunità per nazioni e regioni come Sardegna e Scozia: una fine ingloriosa dell'UE, e il ritorno di nazioni-stato centralizzate, non sarà un bel avvenire per nazioni come Scozia e Sardegna.





Chi ha bisogno dell'indipendentismo?



Scrissi questo circa un anno fa. Mi sembra ancora attuale, specie considerando che in Sardegna ancora non emerge un'alternativa credibile che abbia come orizzonte la Sardegna e l'interesse dei cittadini di Sardegna. Il titolo è volutamente provocatorio.

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Omar Onnis scrive che “La questione della autodeterminazione della Sardegna non è una questione tra le tante, […], bensì è LA QUESTIONE politica dei nostri anni.” Sono d’accordo. Penso infatti che l’autodeterminazione della Sardegna sia l’unica possibilità di colmare il deficit democratico in Sardegna: una Sardegna indipendente potrebbe permettere ai cittadini di Sardegna di esercitare un controllo più diretto e preciso su chi riceve il mandato di governare. E i cittadini sardi  potrebbero avere maggiore possibilità di influenzare le decisioni che li riguardano. 
Inoltre, l’autodeterminazione della Sardegna potrebbe permettere di migliorare le prospettive economiche della Sardegna,  facilitando politiche che rispondano agli interessi dei cittadini di Sardegna, contribuendo a creare benessere e prosperità.

Ma per fare tutto questo, probabilmente l’indipendentismo non ci serve.
Il problema dell’indipendentismo è in quell' –ismo attaccato all’obiettivo dell’indipendenza. 

L’indipendentismo in Sardegna è stato tradotto in ideologia senza però costruire una visione condivisa della società sarda da costruire prima e dopo l’indipendenza. Senza questa visione condivisa, l’indipendentismo sardo è rimasto solo un movimento, utile per atteggiarsi (magari vestendosi “a la sarda”, o cambiandosi il nome per farlo più sardo), ma velleitario e incapace di creare consenso.

Un movimento che si atteggia a ideologia senza averne le basi si coalizza facilmente nell’opporsi a quello che esiste.  I “grandi successi” dell'indipendentismo sono infatti tutte azioni contro qualcosa, basi militari, nucleare, ecc. Tutto giusto: peccato che nello stesso tempo l’indipendentismo abbia fallito nel proporre un'idea coerente di che tipo di futuro si vuole costruire per la Sardegna.  
Soprattutto, senza una idea di società futura, l’indipendentismo si è inevitabilmente ancorato su questioni “identitarie”. Per esempio la questione della “lingua”. Nel mettere al centro questioni come la lingua e cultura (cultura naturalmente “identitaria”), l’indipendentismo è ricaduto diverse volte nelle trappole di una visione fondamentalmente nazionalista ed esclusiva, dove cultura “identitaria” e lingua (Sa Limba, come se in Sardegna ce ne fosse solo una), fossero il fondamento dell’appartenenza alla Sardegna. I sardi invece continuano a comunicare con o senza “Sa Limba” e continuano a consumare e creare cultura anche senza preoccuparsi di quanto sia “identitaria” o meno.

La conseguenza dell’avere una base ideologica così vaga e pericolosamente nazional-identitaria,  è il fallimento dell’indipendentismo sardo nell’elaborare politiche che abbiano parlato in modo pragmatico di prosperità e sviluppo. Senza una visione sociale ed economica coerente, l’indipendentismo ha fallito nel dare risposte ai temi  basilari del fare politica, i temi economici e sociali.
E questo fallimento nell’articolare politiche economiche concrete non ha fatto che tenere lontani i ceti e le persone moderate dall’indipendentismo, come sottolinea Maurizio Onnis

 Il fatto che si continui, per esempio qua, ad augurare che gli indipendentisti si uniscano per “fare 4 o 5 cose” lo trovo deprimente. I cittadini sardi potranno anche essere d’accordo su queste 4 o 5 cose, ma chi aspira a governare la Sardegna dovrebbe dare risposte a questioni che vanno oltre le 4 o 5 questioni che gli indipendentisti propongono. Per essere credibili bisognerebbe avere una visione a tutto tondo, che includa economia, impresa, industria, educazione, trasporti, infrastruttura... Gli indipendentisti hanno spesso fallito nel dare risposte coerenti  a domande su queste questioni, spesso  più preoccupati dal compito di “creare coscienza nazionale”. 

La Sardegna avrebbe quindi bisogno di indipendenza, ma non dell'indipendentismo da 4/5 titoli. E come sottolinea Anghelu Morittu, forse l'unico modo per ripartire è partire dal governare il territorio, magari anche dall'opposizione, per cominciare ad acquisire una visione a tutto tondo.

Non possiamo tutti fare i ballerini

Ieri ho visto il musical Billy Elliot, ispirato dall'omonimo film. Billy Elliot è la storia di un bambino che si afferma nella danza classica pur vivendo nella comunità di minatori in lotta contro la chiusura delle miniere nell'Inghilterra degli anni '80.

Rivivere questa storia dopo Brexit fa uno stano effetto: non ho potuto fare a meno di pensare che il caos, l'incertezza, e la spaccatura che la Gran Bretanga vive ora siano gli effetti di ciò che era iniziato allora.

La Gran Bretagna sotto il governo di Margareth Thatcher è stato infatti il paese che si è mosso più velocemente e decisamente verso una economia "post-industriale".

La Gran Bretagna era un tempo il maggior produttore mondiale: nel 1870 il 46% dei prodotti della manifattura esportati nel mondo proveniva dalla Gran Bretagna. Per mettere questo dato in prospettiva, nel 2007 solo il 17% dei prodotti commerciati nel mondo proveniva dalla Cina, il maggior produttore mondiale. La manifattura e l'industria britanniche avevano cominciato a declinare nel dopoguerra, ma la dottrina neo-liberista attuata dalla Thatcher diede il definitivo colpo di grazia a quello che rimaneva della manifattura britannica. I governi conservatori e laburisti successivamente hanno continuato a seguire un modello di economia post-industriale, in cui l'economia diventa "economia della conoscenza" ed economia basata su servizi (per esempio, i servizi finanziari).

Tuttavia, una economia basata sulla conoscenza crea inevitabilmente un sistema sbilanciato. Chi possiede conoscenze e competenze, è ricompensato dal sistema. Chi non possiede conoscenze, magari perché non ha avuto opportunità per studiare, è destinato a essere tagliato fuori dall'economia.

Ma una economia basata sulla conoscenza e sui servizi è anche un modello economico insostenibile non solo per le disuguaglianze sociali che perpetua e accentua, ma anche perché, nonostante tanto parlare di economie "post-industriali" ed economia della conoscenza, il motore della prosperità di molte nazioni rimane la manifattura.

Nella manifattura si possono infatti migliorare i processi produttivi tramite innovazione tecnologica e tramite l'organizzazione di questi processi, aumentando così la produttività e il profitto dell'industria. Esistono invece limiti più severi alle possibilità di migliorare la produttività dei servizi: per esempio, un barbiere difficilmente può aumentare la sua produttività tagliando i capelli a più di un certo numero di persone in un'ora, a meno di non fare un pessimo lavoro.

La manifattura è anche basilare per una economia prospera perché molti dei processi che vengono creati per migliorare la produttività in questo settore spesso ispirano altri settori. Per esempio, i Paesi Bassi sono il terzo esportatore di prodotti agricoli nel mondo anche grazie a processi di produzione agricola ispirati ai metodi di produzione industriale (per es. il controllo computerizzato dei principi nutrienti).

Le conoscenze, che dovrebbero essere la base di una economia post-industriale, sono poi spesso incentivate e sostenute dal fatto che servono la produzione industriale.

La Brexit è stata interpretata come una rivolta di molti contro un sistema economico da cui comunità e individui si sono sentiti completamente tagliati fuori. In Gran Bretagna esisteva anche un certo orgoglio nell'essere "working class", di contribuire con il proprio lavoro a costruire un paese prospero. Tutto questo è sparito, anche perché la produzione industriale è stata "devoluta" a paesi come la Cina che garantivano bassi costi di produzione grazie a salari bassi.

In tempi recenti la scelta di spostare la produzione in altri paesi sta venendo rivalutata, e esiste una tendenza a "rimpatriare" la produzione industriale. Molti gruppi industriali si stanno infatti rendendo conto che spostare la produzione all'estero può ridurre costi, ma ha anche diversi svantaggi. Questi svantaggi includono il fatto che spostare la produzione all'estero rende più difficile cambiare i processi produttivi per rispondere alle esigenze del mercato e dei consumatori. Spostare la produzione all'estero aumenta anche il rischio che i prodotti e i processi di produzione vengano copiati e replicati (un rischio particolarmente reale in paesi come la Cina, dove la proprietà intellettuale non è molto protetta).

Mantenere la produzione entro le proprie mura ha invece il potenziale vantaggio di facilitare l'innovazione attraverso una interazione più diretta tra metodi di produzione, ricerca e sviluppo, e spesso, gli operai stessi.

Insomma, smantellare un sistema industriale e produttivo per basare l'economia sulla finanza, la speculazione (come quella finanziaria e immobiliare) e su servizi, non solo ha poco senso, ma ha anche alienato intere regioni e porzioni della popolazione in Gran Bretagna.

Anche in Sardegna sembra che l'idea di una economia post-industriale sia la visione di molti governi che si sono succeduti, e questo fatto è testimoniato da quanto il terziario sia il settore di occupazione dominante, mentre gli impiegati nell'industria sono declinati dopo gli anni '80, come il grafico qua sotto rappresenta.





Come ho scritto altrove, chi si candida a guidare la Sardegna dovrebbe pensare a politiche economiche diverse, forse anche riflettendo su processi e avvenimenti ben oltre il locale.



Referenda e democrazia: pensieri post-Brexit


Il risultato del referendum nel Regno Unito, dove una marginale maggioranza (51,9%) ha deciso di lasciare l'Unione Europea, ha aperto un dibattito accesso sui social media riguardo la democrazia. 

Alcuni sostengono che questioni complesse come quella di aderire all'UE non dovrebbero essere sottoposte alla volontà popolare tramite referendum. Altri mettevano  in rilievo che il voto per lasciare l'UE era prevalente in aree più povere e con meno istruzione, e, rivelando un atteggiamento elitario, mettevano in dubbio che queste fasce abbiano competenza per decidere su questioni del genere.

Voler negare alla volontà popolare il diritto di decidere su questioni complesse come l'adesione all'UE non mi sembra un atteggiamento molto democratico.

 Nonostante questo, il modo in cui il referendum si è svolto in Gran Bretagna ha rivelato diversi nodi da sciogliere. 

Una prima osservazione, per chi ha vissuto in prima persona questa campagna referendaria, è che il  dibattito sul voto non si sia centrato su fatti e dati, ma si sia stato un dibattito molto urlato, tutto incentrato su slogan e emozioni. Da una parte "Remain" ha fatto una campagna molto negativa, cercando di far preoccupare i cittadini riguardo le possibili (e reali) conseguenze negative dell'uscita. Nicola Sturgeon, che ne sa, aveva avvertito sui rischi di fare una campagna tutta negativa, ma non è stata ascoltata, e la sua voce fuori dalla Scozia non si è sentita molto. 

D'altra parte "Leave" ha fatto una campagna tutta basata sul tema dell'immigrazione da controllare, slogan sul "riprendere il controllo", dati gonfiati se non platealmente falsi. In tutto questo, nessuno è riuscito (o ha voluto) riportare il dibattito sui dati e sui fatti. Michael Gove, che ora si candida a guidare i Conservatori e il governo britannico, ha detto "i cittadini sono stufi degli esperti". Esiste allora davvero un problema se i cittadini non ascoltano gli esperti, o meglio, se gli esperti non hanno più l'autorevolezza di farsi ascoltare dai cittadini che votano. 

Qualcosa si è rotto, e se non esiste un modo di discutere su questioni importanti come queste ragionando su fatti e dati credibili, le decisioni prese non saranno ragionate. Il problema non è che i cittadini non istruiti votano, il problema è lo scollamento tra cittadini e chi dovrebbe portare strumenti di conoscenza (gli esperti) e chi dovrebbe esercitare leadership, i politici, e guidare il dibattito usando strumenti di conoscenza.

Le regole di questo referendum erano chiare, accettate da tutti, dunque il voto va rispettato per quello che è stato. 

Ma esiste un altro problema, che è quello che la democrazia non è solo, o semplicemente, la volontà della maggioranza, ma dovrebbe essere un sistema di contromisure e controlli ("checks and balances") che permetta la mediazione di interessi a volte contrastanti, e assicuri un terreno comune dove le decisioni della maggioranza abbiano autorevolezza.

 In questo referendum tutti questi sistemi di contromisure non ci sono stati, e questo è stato un altro errore di Cameron e della sua arroganza. 

È stato infatti irresponsabile fare un referendum sull'UE senza prima garantire un accordo sul Nord Irlanda che preservasse la sostanza degli accordi di pace nel caso vincesse  "Leave". Nessuno l'ha fatto, e ora ci si trova in una situazione che rischia di distruggere il frutto di accordi che hanno garantito il ritorno alla normalità di un paese distrutto da 30 anni guerra civile. 

Si sarebbe dovuto anche fare un accordo sulla Scozia, per garantire un processo che tuteli gli interessi di questa nazione. Nessuno l'ha fatto, e la maggioranza degli inglesi e dei gallesi ha calpestato molto incoscientemente le considerazioni di queste nazioni "minoritarie". Gli scozzesi e gli irlandesi (a nord e a sud del confine) hanno ben ragione di essere risentiti verso la maggioranza e questa idea di democrazia della maggioranza senza bilanciamenti. 

Anche in Inghilterra, un voto per maggioranza su una questione così importante sta letteralmente spaccando il paese e alcune delle storiche istituzioni democratiche come i due maggiori partiti britannici (Conservatori e Laburisti). Un voto per maggioranza senza bilanciamenti e che non è stato preceduto da una attenta riflessione per garantire autorevolezza a questo voto, sta determinando il rischio di una profonda spaccatura nel Regno Unito, una spaccatura che sembra minacciare l'esistenza stessa di questo paese.

a pagu...

Molti indipendentisti sardi pensano che l'uscita del Regno Unito di Gran Bretagna e Nord Irlanda dall'Unione Europea apra la strada per una Scozia indipendente, e addirittura una Irlanda unita.

Io penso che le cose siano molto più complicate.

Nicola Sturgeon e Alex Salmond non erano certo molto felici del risultato del referendum: Scottish National Party ha fatto la campagna per rimanere nell'UE, e i suoi leader si sono spesi molto per convincere non solo gli scozzesi, ma anche i gallesi e gli inglesi, che fosse nell'interesse del Regno Unito rimanere nell'UE. Lo hanno fatto con passione, una passione che è stata visibilmente assente nel leader dei laburisti.

Il giorno dopo le elezioni Nicola Sturgeon non poteva che invocare un secondo referendum per l'indipendenza, dal momento che, come la stessa prima ministra scozzese dice: "la Scozia viene tirata fuori dall'UE contro la sua volontà".

Un secondo referendum si potrebbe svolgere in un contesto molto più complicato.

Nel primo referendum, la Scozia sarebbe potuta diventare un paese indipendente, membro dell'UE, al pari del Regno Unito. Non c'era nessuna garanzia che l'UE accettasse la Scozia, ma questa sembrava una prospettiva plausibile. Una Scozia indipendente dentro l'UE, al pari del Regno Unito, avrebbe garantito libero movimento di merci e persone tra Scozia e Inghilterra, Galles e Nord Irlanda.

Ora che il Regno Unito ha deciso di uscire dall'UE, questo scenario non esiste più. Se la Scozia diventasse indipendente per rimanere (o ri-entrare) nell'UE, ci sarebbe la prospettiva di una vera e propria barriera tra Scozia e Inghilterra, con controlli di passaporto, dogane, dazi, ecc. L'Inghilterra che ha votato per "riprendere controllo sull'immigrazione" non vorrà certo fare sconti ad una Scozia che invece sarebbe aperta al libero movimento di persone dall'UE (notare, questo e lo scenario che si prospetta per il Nord Irlanda).

La prospettiva di avere un confine tra Scozia e Inghilterra, controlli di passaporti, e possibili dazi doganali, sarà un argomento molto forte contro l'indipendenza.

C'è anche da considerare l'aspetto simbolico. Molti scozzesi che hanno votato per l'indipendenza comunque si riconoscono anche come "British": British è un termine che ha connotati inclusivi e positivi, non è appannaggio degli inglesi, e implica riconoscersi in valori incarnati nelle istituzioni britanniche, come "the rule of law" (governo per legge), e così via.

Gli indipendentisti scozzesi erano riusciti a convincere molti scozzesi affezionati alla "britannicità" sostenendo che l'indipendenza avrebbe comunque assicurato una continuità: avrebbero mantenuto la sterlina, avrebbero mantenuto la monarchia, avrebbero mantenuto libertà di movimento e scambi tra Scozia e resto della Gran Bretagna.
Nel quadro attuale tutte queste cose saranno difficili da garantire, e anche simbolicamente, l'indipendenza scozzese significherà una rottura molto più radicale.

Inoltre, per quanto la Scozia abbia una economia aperta all'Europa, l'Inghilterra rimane il partner economico privilegiato.  Una Scozia indipendente in Europa e una Inghilterra fuori potrebbe significare perdere un mercato privilegiato e affine (per lingua,consuetudini, ecc.).

Insomma, tutte questi motivi fanno pensare che l'indipendenza scozzese non sarà così scontata, e si capisce perchè Sturgeon nel commentare il referendum sull'UE e lanciare l'idea di un secondo referendum sull'indipendenza non avesse proprio l'espressione serena di chi aspettava questo momento con gusto.

Per quanto riguarda il Nord Irlanda, un attento commentatore come Fintan O'Toole spiega in modo molto efficace che l'uscita dell'UE del Regno Unito significa de-stabilizzare il processo di pace che ha permesso il ritorno di una vita normale nel Nord Irlanda. Destabilizzare questo processo non vuol dire che le truppe britanniche se ne andranno (se ne sono già andate da un pezzo), ma rischia di significare la ripresa di una latente guerra civile.

Il caso della Scozia dimostra quanto l'esistenza di una struttura sovra-nazionale sia l'unica prospettiva per poter pensare e realizzare l'indipendenza di "piccole" nazioni o regioni come Scozia e altre. L'indebolimento e la perdita di consenso di queste istituzioni sovra-nazionali rischia di far ricadere l'Europa in uno scenario di opposti sciovinismi, dove nazioni-stato "riprendono il controllo" sui loro confini, annichilendo le istanze di indipendenza di nazioni "minoritarie" dentro lo stato. Le piccole nazioni senza stato non avranno uno spazio politico dove operare. Per questo sarebbe importante salvare e riformare l'UE, e assicurarsi che riacquisti quell'autorevolezza e consenso che sta perdendo. 

Sweet moderation, desert us not

E così il Regno Unito di Gran Bretagna e Nord Irlanda ha deciso di uscire dall'Unione Europea.

Quello che succederà in Gran Bretagna è davvero una incognita, ma penso che si prospettino tempi difficili per l'Europa. Con tutti i suoi limiti, il progetto di collaborazione e unione europea ha assicurato pace e stabilità all'Europa, e il risorgere di nazionalismi ed esclusivismi in Europa, spesso fomentati da una Russia autoritaria e imperialista, non fa pensare che vedremo molta buona volontà e spirito di collaborazione nel prossimo futuro del nostro continente.

Quello che colpisce nel voto nel Regno Unito è la netta divisione delle opinioni in base alla geografia, e in base allo status sociale.

È evidente la divisione tra Scozia e Inghilterra, e anche il fatto che il Nord Irlanda abbia anch'esso votato per rimanere.
In Scozia i favorevoli per rimanere erano anche oltre il 60% in aree come Glasgow. Il fatto che la Scozia si troverà fuori dall'UE contro la volontà della maggioranza dei suoi cittadini riaprirà la questione di quanto convenga alla Scozia continuare a far parte del Regno Unito, e potrebbe portare ad un secondo referendum per l'indipendenza.

In Nord Irlanda, la prospettiva di rivedere barriere al confine tra Nord e Repubblica d'Irlanda rischia di riaprire tensioni che erano state superate dagli accordi di pace. La libertà di movimento tra Nord Irlanda e la Repubblica d'Irlanda dovrà essere ri-negoziata, e questa instabilità rischia di destabilizzare una situazione che attualmente ha garantito una pace solida. Il fatto che la comunità di estrazione cattolica del Nord Irlanda si trovi, contro la sua volontà, fuori da una Unione che assicura collaborazione e scambio con la Repubblica d'Irlanda, non mancherà certo di creare frizioni in negoziati che si prospettano davvero complicati.

In Inghilterra e Galles i favorevoli all'uscita dall'UE si concentrano soprattutto nelle zone non-urbane, spesso zone di alta deprivazione economica (per esempio, il Nord-Est dell'Inghilterra), mentre i votanti nei centri urbani (Londra fra tutti) sono stati in maggior parte favorevoli a rimanere.
Questa divisione riflette il fatto che i favorevoli a rimanere erano in maggioranza tra persone più giovani, e tra le persone con più alto livello di educazione e reddito.

La campagna referendaria ha evidenziato un livello di rabbia e delusione, giustificato dal fatto che negli ultimi anni dopo la crisi e l'anemica ripresa, i salari sono rimasti bassi, e i servizi carenti, incidendo negativamente sul tenore di vita. Le persone con più bassi livelli di educazione e specializzazione sono state quelle più duramente colpite da questi aspetti. Tuttavia, la narrativa che ha dominato non è stata quella di dare la colpa ai tagli del Welfare istituiti dal governo conservatore, ma invece dare la colpa all'immigrazione "fuori controllo". La narrativa dominante, e quella che si è rivelata vincente, è riassunta nello slogan "Take back control", riprendiamo il controllo; in particolare il controllo sull'immigrazione.

Nella mia esperienza, la stragrande maggioranza degli immigrati in questo paese lavora e contribuisce all'economia, una impressione confermata da studi autorevoli. Del resto gli immigrati vengono nel Regno Unito non attratti dal Welfare (ci sono stati europei che assicurano maggiori benefici), ma vengono perché attratti da un mercato del lavoro dinamico e flessibile. Uscire dall'UE non assicura neanche che il Regno Unito possa bloccare la libertà di movimento delle persone se vuole continuare a commerciare con l'Europa. Per esempio, la Svizzera ha dovuto accettare determinate condizioni sulla libertà di movimento dei cittadini europei in Svizzera.

Il primo ministro Cameron è il più grande sconfitto, e il referendum probabilmente significa la fine della sua carriera politica. Cameron ha le sue colpe. La prima è quella di aver creduto di poter accontentare gli euroscettici dentro il suo partito dandogli varie concessioni.

Cameron avrebbe potuto cercare di dis-innescare la questione immigrazione dall'inizio, sostenendo, come dati dimostrano, che l'immigrazione nel Regno Unito è attualmente sostenibile e apporta benessere. Ha invece cercato di usare questo argomento strumentalmente, per esempio promettendo un limite all'immigrazione durante la campagna elettorale, limite che non ha potuto rispettare. Nel momento in cui ha parlato di limiti all'immigrazione e di restrizioni alla libertà di movimento (un principio cardine dell'UE che Cameron, molto ingenuamente, aveva promesso di rinegoziare), ha legittimato l'idea dell'immigrazione come un problema. Nel legittimare questa idea,  ha rafforzato chi proponeva la soluzione radicale, a discapito delle soluzioni di compromesso che Cameron proponeva.

Quello che succederà ora nessuno lo sa, ma il Regno Unito si scopre sempre più diviso geograficamente e nei suoi segmenti sociali (e anche generazionali), e sembra difficile che le crepature rivelate e ingrandite da questa bieca campagna referendaria si possano ricomporre presto. L'Unione Europea diventa sempre più debole e dovrà cercare di ritrovare consenso e autorevolezza, cosa non facile viste le contrastanti pulsioni nazionaliste a destra, e populiste a sinistra, che la dividono.

Voglio pensare che la Gran Bretagna sia ancora quel paese che si ispiri alla moderazione e alla decenza, o, per dirla con Billy Bragg: "sweet moderation, heart of this nation, desert us not..."


"it's the economy"

Parlando con altri sardi che simpatizzano con l'idea di una Sardegna indipendente, spesso si finisce a discutere del perché gli indipendentisti non vengano ritenuti credibili.

Uno dei motivi tra gli altri (vedi questo articolo, che condivido) è l'economia: gli indipendentisti non hanno mai presentato una proposta credibile e articolata di come creare prosperità in Sardegna.
A questa osservazione qualcuno ribatte che programmi credibili sono stati anche presentati, con proposte serie sulle bonifiche, il turismo culturale, ecc., ma i sardi non credono a queste proposte perché "colonizzati culturalmente", e quindi scettici sulle loro reali possibilità.

Questa idea del colonialismo culturale non mi ha mai convinto molto, anche perché si presta ad una visione paternalistica in cui ci sarebbero persone "colonizzate" non in grado di capire i loro veri interessi. In genere, parto dall'idea che le persone siano in grado di ragionare da sole e capire i propri interessi.

Il problema è invece -secondo me- che molti cittadini di Sardegna si rendono conto che bonifiche, turismo culturale ecc. sono solo  elementi secondari di una economia. Una economia prospera si fonda su altre premesse.

A sentire diversi economisti, una delle premesse di una economia prospera è la manifattura e l'industria: ovvero la produzione di beni che vendono e che altri paesi comprano. Paesi prosperi come Svizzera, Irlanda, Svezia e Finlandia basano la loro prosperità sull'industria: questi sono tra i paesi più industrializzati al mondo se si considera la produzione pro-capite.

La manifattura e l'industria possono essere la base per una economia prospera perché è possibile produrre più efficientemente grazie a innovazione e progresso tecnologico, e perché l'innovazione dei prodotti permette di continuare ad avere una presenza nel mercato. La Svizzera, per es., si specializza in produzione di macchinari avanzati e prodotti per l'industria chimica.

L'altra considerazione importante, è che anche settori come la finanza e il terziario (servizi ecc.), sono sostenuti da una manifattura prospera. L' "economia della conoscenza", ovvero tecnologie informatiche, design, ecc., sono sostenute in primo luogo dal servire la produzione e la manifattura. Una manifattura solida crea un indotto che favorisce altri settori.
Cosa non secondaria, grazie alla necessità di operai specializzati, la manifattura offre anche la possibilità di mobilità sociale: anche persone che non hanno potuto studiare possono aspirare a salari elevati diventando operai specializzati.

Quindi il problema nel presentare un programma economico credibile per la Sardegna sarebbe quello di individuare e sostenere l'industria e la manifattura sarde. Ovviamente una industria solida ha bisogno di infrastruttura (trasporti, energia) e supporto (conoscenze, specializzazione, ricerca e sviluppo). Queste cose non accadono dall'oggi al domani, ma possono essere aiutate da investimenti esterni.

Piccoli paesi come l'Irlanda e Singapore sono diventati prosperi e industrializzati attraverso politiche attente che hanno attratto investimenti dall'estero e dalle multinazionali. Al contrario di altri paesi, le politiche di paesi come Irlanda e Singapore sono regolate per assicurare che gli investimenti dall'esterno beneficino anche il paese che ospita le multinazionali.

Per esempio, le politiche della Repubblica d'Irlanda hanno permesso di attrarre investimenti in settori chiave come l'elettronica, la produzione farmaceutica, e quella di software. Inoltre, l'Irlanda richiede agli investitori di soddisfare criteri di prestazione: per esempio, gli incentivi offerti dal governo irlandese aumentano a seconda di quanto gli investimenti esterni assicurano la creazione di competenze locali, investono localmente in ricerca e sviluppo, e creano un indotto. Con queste politiche mirate, l'Irlanda è passata dall'essere un paese senza una industria degna di questo nome, ad essere uno dei maggiori produttori industriali in Europa. Nonostante la crisi finanziaria, l'Irlanda ha mantenuto queste politiche industriali mirate ed è riuscita a uscire dalla crisi.

Insomma, i movimenti indipendentisti che si propongono di governare la Sardegna dovrebbero cominciare a trattare questi temi in modo più articolato e concreto. Per farlo dovrebbero uscire dal recinto in cui si sono chiusi dominato da discorsi dominati da temi come "coscienza nazionale", e cominciare a parlare di economia.
Dovrebbero poi imparare dagli attori locali: gli imprenditori, i banchieri, i produttori, ecc., oltre che gli operai. Dovrebbero infine coinvolgere questi attori nella creazione di proposte per una industria che serva alla prosperità dei cittadini di Sardegna. Inutile calare piani industriali pensati a tavolino dalla "classe dirigente" (il fallimento dei Piani di Rinascita dovrebbe servire da lezione): una politica industriale ha bisogno di politiche partecipative e democratiche che diano credito agli attori locali.

L'Irlanda e Singapore sono stati sovrani, al contrario della Sardegna. Ma il compito degli indipendentisti dovrebbe essere quello di usare la limitata autonomia della Sardegna per creare politiche industriali. E se l'autonomia non lo permette, dovrebbero richiedere maggiori poteri mirati ad una politica industriale. Simili politiche economiche giustificano la necessità di maggiore indipendenza e sovranità della Sardegna: solo un governo vicino ai produttori sardi può capire e garantire le loro necessità. Ed ecco che la migliore giustificazione per l'indipendenza della Sardegna è che questa offrirebbe una strada per la prosperità.

Pesare le parole: antisemitismo e linguaggio

È triste constatare che in Europa siano in aumento gli atti di antisemitismo, ed è piuttosto deprimente sentire persone che si riconoscono come ebree dire di non sentirsi sicure anche in paesi aperti e liberali come la Gran Bretagna.

In Gran Bretagna quantomeno c'è attenzione a questo problema e al fatto che certi atteggiamenti e certo linguaggio possono alimentare l'antisemitismo. Recentemente, per esempio, i laburisti sono stati chiamati a castigare propri esponenti che hanno espresso opinioni che rivelavano stereotipi e pregiudizi contro gli ebrei.

Purtroppo in Sardegna sembra che questa sensibilità al tema non sia ancora presente, e non lo sia nemmeno nella sinistra che, in teoria, dovrebbe essere più attenta.

In questo articolo del Manifesto Sardo, per esempio, l'autore sostiene che sia accettabile e opportuno definirsi e parlare di "antisionismo".

Il problema, come sostiene quest'altro  articolo, è che usare il termine "anti-sionismo" per dichiarare la propria opposizione alle politiche dello stato di Israele rischia di alimentare l'idea tutta "complottista" di un movimento sionista internazionale, e magari alimentare idee secondo cui gli ebrei manovrerebbero la finanza e la politica internazionale, così alimentando stereotipi che si sperava fossero stati ormai andati in disuso.

Non esiste più un movimento sionista, e sionismo significa cose molto diverse: parlare di anti-sionismo è quindi solo strumentale -che uno ne sia consapevole o meno- ad alimentare pregiudizi, e fa specie che la sinistra che si auto-dichiara progressista non riesca a vedere il pericolo nell'usare un linguaggio non solo inadeguato, ma pericoloso.

È più che necessario per un progressista o un liberale opporsi a certe politiche dello stato di Israele, specie dal momento che questo stato sta, da diversi anni, prendendo una deriva sempre più segregazionista ed espansionista, tra l'altro tradendo molti degli ideali progressisti che avevano caratterizzato la nascita stessa dello stato di Israele.  È però pericoloso e inaccettabile usare un linguaggio che alimenta pregiudizi e può servire a negare lo stesso diritto di esistere dello stato israeliano.

Citando Nanni Moretti, "le parole sono importanti", e pesarle è un dovere di chi vuole fare politica.


"walk in silence": in memoria di Ian Curtis

"Walk in silence" è la prima strofa di Atmosphere dei Joy Division, uno dei pezzi più dolenti e innovativi prodotto da questo gruppo.

Oggi sono 36 anni da quando Ian Curtis, la figura più rappresentativa di questo gruppo, si tolse la vita lasciando una figlia e la prospettiva di un tour degli USA che avrebbe potuto conclamare il successo dei Joy Division ben al di là della scena indipendente e d'avanguardia.

Ero troppo piccolo nel 1980 per apprezzare i Joy Division e per accorgermi della morte di Curtis. Nell'adolescenza apprezzavo i New Order, gruppo formato dai membri dei Joy Division rimasti, ma trovavo la musica dei Joy Division troppo "oscura" e deprimente.

È quindi solo in età matura che ho cominciato ad apprezzare i Joy Division. Ed è impressionante quanto quella musica sia ancora attuale: per esempio, Transmission fonde una linea di basso molto marcata e riff di chitarra con un sottofondo elettronico continuo, dando al pezzo una qualità quasi incorporea e astratta. Molti gruppi contemporanei, non ultimi i Radiohead, sono molto in debito con i Joy Division per aver rivoluzionato la musica del tempo.

La BBC aveva dato qualche tempo fa un documentario molto intenso sui Joy Division. Una delle cose che mi aveva colpito era quanto i sentimenti degli altri componenti della band verso Ian Curtis fossero ancora forti: legati anche da una lunga amicizia a Ian Curtis, gli altri componenti della band esprimevano dolore e, nello stesso tempo, rabbia verso l'atto di suicidio di Ian Curtis.

Ma un'altra cosa che colpisce nel documentario è la capacità di ricostruire un'epoca dove improvvisamente si erano aperti degli spazi per affermarsi per dei giovani che, come i Joy Division, venivano da una zona periferica e da un ambiente deprivato. Alla fine degli anni '70 il Punk e tutto ciò che seguì avevano infatti rivoluzionato le strutture gerarchiche dell'industria discografica, aprendo la porta a molti "emarginati" (outliers).
Come in molte rivoluzioni, una importante componente era l'innovazione tecnologica: stampare dischi e copertine era diventato molto più accessibile, e la nascita delle radio pirata permetteva la diffusione di questa musica.

In un contesto del genere, si era creato lo spazio per un gruppo di giovani che voleva migliorarsi e progredire attraverso la cultura: dal documentario emerge, per esempio, quanto i Joy Division avessero investito nella lettura, sebbene nessuno fosse stato uno studente particolarmente di successo a scuola.

In un contesto del genere, era emerso il genio oscuro e malinconico di Ian Curtis, creatore di un ricco patrimonio d'arte che toccherà e ispirerà ancora tanti.

La bicicletta come congegno della realizzazione del genere umano (cit.)

Passati i 40 anni ho scoperto due passioni: cucinare (non ero negato dopotutto, quanto invece, non mi applicavo) e il ciclismo su strada.

Aver scoperto il ciclismo su strada così tardi mi rammarica, soprattutto considerando che mi è sempre piaciuta la bicicletta: quando frequentavo l'Università a Cagliari ero uno dei pochi studenti in una grossa facoltà che usava la bicicletta per andare e venire, e questo prima ancora che a Cagliari comparissero le piste ciclabili. E -per inciso- usavo una fixie, prima ancora che queste fossero considerate "hipstercool".

Il fatto che abbia scoperto il ciclismo su strada non è però tanto legato alla mia età, ma alla mia residenza. Ho infatti scoperto la passione per il ciclismo su strada in Nord Irlanda, e non è casuale: Mentre Belfast non è esattamente una città ciclabile (troppo traffico e poche piste ciclabili), il Nord Irlanda si presta al ciclismo perchè ha una rete di strade ben curate ma che sono generalmente poco trafficate e tranquille. Aiuta poi il fatto che nelle strade c'è un grosso controllo (tramite autovelox, polizia, ecc.), e quindi gli automobilisti sono in genere educati e rispettosi.

Quello che mi piace del ciclismo su strada è l'aspetto competitivo, ma non nel senso di essere migliori di altri (non sono un ciclista agonistico), quanto nel senso di superare i propri limiti e migliorarsi ogni volta. Mentre in altri sport c'è un aspetto agonistico (nel calcio, necessariamente devi battere un'altra squadra), nel ciclismo e simili, uno può trarre motivazioni interiori per dedicarsi allo sport: per esempio, la motivazione di superare gli inevitabili dolori e terminare un percorso lungo o difficile.

L'altro aspetto che mi piace è la libertà che la bicicletta offre di visitare luoghi e di "immergersi" nel paesaggio. Pedalare in Nord Irlanda offre diversi vantaggi: esistono posti e paesaggi che sono estremamente belli e affascinanti (alcuni di questi fanno da scenario a una serie televisiva come Game of Thrones).

Mi ha interessato vedere come questo senso di libertà e di opportunità fosse uno degli aspetti più affascinanti per i pionieri del ciclismo alla fine dell'800 e nel primo '900. La bicicletta, ben prima dell'automobile e molto più radicalmente del treno, aprì possibilità enormi per molte persone per cui il mondo era stato, fino ad allora, limitato e chiuso. Uno studioso sostiene che grazie alla libertà offerta dalla bicicletta, gli individui avevano maggiori occasioni di incontrare partner al di fuori della propria 'bidda' in un periodo dove una grossa proporzione della popolazione viveva ancora in zone rurali. L'allargarsi del numero di potenziali partner,  avrebbe avuto un impatto notevole sulla varietà del patrimonio genetico delle nuove generazioni. 

Nell'articolo linkato sopra, mi ha anche affascinato scoprire che la passione per la bicicletta fosse condivisa da molte donne, e che quindi la bicicletta fosse uno dei primi strumenti di emancipazione femminile in un periodo dove le donne cominciavano finalmente a reclamare pari diritti in modo assertivo (per es., con la nascita del movimento delle Suffragette).

Infine, a chi si lamenta che le "strade non sono fatte per le biciclette", bisognerebbe ricordare che -in realtà- in molti paesi la qualità della rete stradale migliorò proprio per fare spazio alle biciclette. E non solo, alcune delle innovazioni che hanno portato alle automobili, furono prese in prestito proprio dalle innovazioni per la bicicletta: per esempio, l'uso dei pneumatici (una innovazione creata -tra l'altro- proprio in Nord Irlanda).