Non possiamo tutti fare i ballerini

Ieri ho visto il musical Billy Elliot, ispirato dall'omonimo film. Billy Elliot è la storia di un bambino che si afferma nella danza classica pur vivendo nella comunità di minatori in lotta contro la chiusura delle miniere nell'Inghilterra degli anni '80.

Rivivere questa storia dopo Brexit fa uno stano effetto: non ho potuto fare a meno di pensare che il caos, l'incertezza, e la spaccatura che la Gran Bretanga vive ora siano gli effetti di ciò che era iniziato allora.

La Gran Bretagna sotto il governo di Margareth Thatcher è stato infatti il paese che si è mosso più velocemente e decisamente verso una economia "post-industriale".

La Gran Bretagna era un tempo il maggior produttore mondiale: nel 1870 il 46% dei prodotti della manifattura esportati nel mondo proveniva dalla Gran Bretagna. Per mettere questo dato in prospettiva, nel 2007 solo il 17% dei prodotti commerciati nel mondo proveniva dalla Cina, il maggior produttore mondiale. La manifattura e l'industria britanniche avevano cominciato a declinare nel dopoguerra, ma la dottrina neo-liberista attuata dalla Thatcher diede il definitivo colpo di grazia a quello che rimaneva della manifattura britannica. I governi conservatori e laburisti successivamente hanno continuato a seguire un modello di economia post-industriale, in cui l'economia diventa "economia della conoscenza" ed economia basata su servizi (per esempio, i servizi finanziari).

Tuttavia, una economia basata sulla conoscenza crea inevitabilmente un sistema sbilanciato. Chi possiede conoscenze e competenze, è ricompensato dal sistema. Chi non possiede conoscenze, magari perché non ha avuto opportunità per studiare, è destinato a essere tagliato fuori dall'economia.

Ma una economia basata sulla conoscenza e sui servizi è anche un modello economico insostenibile non solo per le disuguaglianze sociali che perpetua e accentua, ma anche perché, nonostante tanto parlare di economie "post-industriali" ed economia della conoscenza, il motore della prosperità di molte nazioni rimane la manifattura.

Nella manifattura si possono infatti migliorare i processi produttivi tramite innovazione tecnologica e tramite l'organizzazione di questi processi, aumentando così la produttività e il profitto dell'industria. Esistono invece limiti più severi alle possibilità di migliorare la produttività dei servizi: per esempio, un barbiere difficilmente può aumentare la sua produttività tagliando i capelli a più di un certo numero di persone in un'ora, a meno di non fare un pessimo lavoro.

La manifattura è anche basilare per una economia prospera perché molti dei processi che vengono creati per migliorare la produttività in questo settore spesso ispirano altri settori. Per esempio, i Paesi Bassi sono il terzo esportatore di prodotti agricoli nel mondo anche grazie a processi di produzione agricola ispirati ai metodi di produzione industriale (per es. il controllo computerizzato dei principi nutrienti).

Le conoscenze, che dovrebbero essere la base di una economia post-industriale, sono poi spesso incentivate e sostenute dal fatto che servono la produzione industriale.

La Brexit è stata interpretata come una rivolta di molti contro un sistema economico da cui comunità e individui si sono sentiti completamente tagliati fuori. In Gran Bretagna esisteva anche un certo orgoglio nell'essere "working class", di contribuire con il proprio lavoro a costruire un paese prospero. Tutto questo è sparito, anche perché la produzione industriale è stata "devoluta" a paesi come la Cina che garantivano bassi costi di produzione grazie a salari bassi.

In tempi recenti la scelta di spostare la produzione in altri paesi sta venendo rivalutata, e esiste una tendenza a "rimpatriare" la produzione industriale. Molti gruppi industriali si stanno infatti rendendo conto che spostare la produzione all'estero può ridurre costi, ma ha anche diversi svantaggi. Questi svantaggi includono il fatto che spostare la produzione all'estero rende più difficile cambiare i processi produttivi per rispondere alle esigenze del mercato e dei consumatori. Spostare la produzione all'estero aumenta anche il rischio che i prodotti e i processi di produzione vengano copiati e replicati (un rischio particolarmente reale in paesi come la Cina, dove la proprietà intellettuale non è molto protetta).

Mantenere la produzione entro le proprie mura ha invece il potenziale vantaggio di facilitare l'innovazione attraverso una interazione più diretta tra metodi di produzione, ricerca e sviluppo, e spesso, gli operai stessi.

Insomma, smantellare un sistema industriale e produttivo per basare l'economia sulla finanza, la speculazione (come quella finanziaria e immobiliare) e su servizi, non solo ha poco senso, ma ha anche alienato intere regioni e porzioni della popolazione in Gran Bretagna.

Anche in Sardegna sembra che l'idea di una economia post-industriale sia la visione di molti governi che si sono succeduti, e questo fatto è testimoniato da quanto il terziario sia il settore di occupazione dominante, mentre gli impiegati nell'industria sono declinati dopo gli anni '80, come il grafico qua sotto rappresenta.





Come ho scritto altrove, chi si candida a guidare la Sardegna dovrebbe pensare a politiche economiche diverse, forse anche riflettendo su processi e avvenimenti ben oltre il locale.



Referenda e democrazia: pensieri post-Brexit


Il risultato del referendum nel Regno Unito, dove una marginale maggioranza (51,9%) ha deciso di lasciare l'Unione Europea, ha aperto un dibattito accesso sui social media riguardo la democrazia. 

Alcuni sostengono che questioni complesse come quella di aderire all'UE non dovrebbero essere sottoposte alla volontà popolare tramite referendum. Altri mettevano  in rilievo che il voto per lasciare l'UE era prevalente in aree più povere e con meno istruzione, e, rivelando un atteggiamento elitario, mettevano in dubbio che queste fasce abbiano competenza per decidere su questioni del genere.

Voler negare alla volontà popolare il diritto di decidere su questioni complesse come l'adesione all'UE non mi sembra un atteggiamento molto democratico.

 Nonostante questo, il modo in cui il referendum si è svolto in Gran Bretagna ha rivelato diversi nodi da sciogliere. 

Una prima osservazione, per chi ha vissuto in prima persona questa campagna referendaria, è che il  dibattito sul voto non si sia centrato su fatti e dati, ma si sia stato un dibattito molto urlato, tutto incentrato su slogan e emozioni. Da una parte "Remain" ha fatto una campagna molto negativa, cercando di far preoccupare i cittadini riguardo le possibili (e reali) conseguenze negative dell'uscita. Nicola Sturgeon, che ne sa, aveva avvertito sui rischi di fare una campagna tutta negativa, ma non è stata ascoltata, e la sua voce fuori dalla Scozia non si è sentita molto. 

D'altra parte "Leave" ha fatto una campagna tutta basata sul tema dell'immigrazione da controllare, slogan sul "riprendere il controllo", dati gonfiati se non platealmente falsi. In tutto questo, nessuno è riuscito (o ha voluto) riportare il dibattito sui dati e sui fatti. Michael Gove, che ora si candida a guidare i Conservatori e il governo britannico, ha detto "i cittadini sono stufi degli esperti". Esiste allora davvero un problema se i cittadini non ascoltano gli esperti, o meglio, se gli esperti non hanno più l'autorevolezza di farsi ascoltare dai cittadini che votano. 

Qualcosa si è rotto, e se non esiste un modo di discutere su questioni importanti come queste ragionando su fatti e dati credibili, le decisioni prese non saranno ragionate. Il problema non è che i cittadini non istruiti votano, il problema è lo scollamento tra cittadini e chi dovrebbe portare strumenti di conoscenza (gli esperti) e chi dovrebbe esercitare leadership, i politici, e guidare il dibattito usando strumenti di conoscenza.

Le regole di questo referendum erano chiare, accettate da tutti, dunque il voto va rispettato per quello che è stato. 

Ma esiste un altro problema, che è quello che la democrazia non è solo, o semplicemente, la volontà della maggioranza, ma dovrebbe essere un sistema di contromisure e controlli ("checks and balances") che permetta la mediazione di interessi a volte contrastanti, e assicuri un terreno comune dove le decisioni della maggioranza abbiano autorevolezza.

 In questo referendum tutti questi sistemi di contromisure non ci sono stati, e questo è stato un altro errore di Cameron e della sua arroganza. 

È stato infatti irresponsabile fare un referendum sull'UE senza prima garantire un accordo sul Nord Irlanda che preservasse la sostanza degli accordi di pace nel caso vincesse  "Leave". Nessuno l'ha fatto, e ora ci si trova in una situazione che rischia di distruggere il frutto di accordi che hanno garantito il ritorno alla normalità di un paese distrutto da 30 anni guerra civile. 

Si sarebbe dovuto anche fare un accordo sulla Scozia, per garantire un processo che tuteli gli interessi di questa nazione. Nessuno l'ha fatto, e la maggioranza degli inglesi e dei gallesi ha calpestato molto incoscientemente le considerazioni di queste nazioni "minoritarie". Gli scozzesi e gli irlandesi (a nord e a sud del confine) hanno ben ragione di essere risentiti verso la maggioranza e questa idea di democrazia della maggioranza senza bilanciamenti. 

Anche in Inghilterra, un voto per maggioranza su una questione così importante sta letteralmente spaccando il paese e alcune delle storiche istituzioni democratiche come i due maggiori partiti britannici (Conservatori e Laburisti). Un voto per maggioranza senza bilanciamenti e che non è stato preceduto da una attenta riflessione per garantire autorevolezza a questo voto, sta determinando il rischio di una profonda spaccatura nel Regno Unito, una spaccatura che sembra minacciare l'esistenza stessa di questo paese.