Il senso di essere non-nazionalista


Un interessante intervento è stato pubblicato sul Guardian da parte di un esponente del Scottish National Party (SNP).
http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2009/nov/...


In questo intervento, l’esponente del SNP mette in risalto che il nazionalismo del SNP e del partito gallese Plaid Cymru è molto differente dal nazionalismo di altri partiti come il British National Party e certi partiti di destra in paesi dell'Europa dell'Est. Il nazionalismo di SNP e Plaid è un nazionalismo diverso, basato su una visione inclusiva e pluralista della nazione e non su una visione incentrata sull’identità etnica: per esempio SNP è favorevole all’immigrazione in Scozia.
Questo intervento mi ha portato a fare alcune riflessioni collegate anche ad un post sul forum di iRS in cui si discusse di nazionalismo.




La prima riflessione è sul significato non etimologico (da dizionario) di nazionalismo, ma il significato pratico che questo termine ha acquisito nella politica nel contesto sociale in cui operiamo. In Gran Bretagna ha senso parlare di nazionalismo civico (civic nationalism), cioè un nazionalismo basato sul voler promuovere gli interessi di una nazione intesa come società civile, dove l’appartenenza alla nazione sia basata sulla condivisione di alcuni valori civici come la democrazia, la libertà di espressione, ecc. Il nazionalismo civico non vedrebbe cioè la nazione come una comunità fondata unicamente su una lingua, o una religione o l’appartenenza etnica. Un partito che voglia promuovere la crescita della nazione scozzese non può che essere un partito fondato sull’appartenenza civica in quanto la nazione scozzese, come la Svizzera ad esempio, non potrebbe mai definirsi in base ad una sola lingua (in Scozia si parla l’inglese e il gaelico, tra l’altro due lingue che provengono entrambe da altre nazioni), non esiste una sola etnia (la nazione scozzese nacque infatti dall’unione di irlandesi, sassoni, scoti e pitti) e non esiste una unica religione (esistono una miriade di confessioni protestanti come la presbiteriana, metodista, anglicana, ecc. che convivono con il cattolicesimo).


Tuttavia, è significativo (o sintomatico) che anche potendo parlare pacificamente di nazionalismo civico SNP senta la necessità di smarcarsi da alcune accuse che non rendono merito dell'idea di società aperta che hanno. Insomma, anche nell’ambito britannico il nazionalismo comporta una certa ambiguità che SNP non ha caso sente il dovere di dover chiarificare. Un lettore commenta le considerazioni sul nazionalismo del SNP dicendo: “Then you're not nationalsits; you're self-determinists. There is a big difference” (Dunque non siete nazionalisti: siete per l'auto-determinazione. C'è una grossa differenza).
Posto dunque che in Gran Bretagna è di per sé problematico parlare di nazionalismo civico, ha senso in Sardegna parlare di nazionalismo civico? Ne ha forse etimologicamente (come fanno le persone che immancabilmente citano il dizionario per dimostrare che nazionalismo non è un termine negativo) ma praticamente, per come è stato storicamente declinato il nazionalismo nel nostro orizzonte politico, parlare di nazionalismo civico risulta quasi una contraddizione in termini. Per quanto possiamo cercare di riqualificare il termine, nel nostro orizzonte politico e per la maggior parte delle persone il nazionalismo è inscindibile dalla convinzione di un valore aggiunto, un valore particolare di una data nazione rispetto ad altre nazioni.
Inoltre il nazionalismo è per molti inscindibile da un’idea di nazione fondata su una identità, una identità che può essere declinata definita da alcuni come identità linguistica, da altri come identità culturale, e per altri ancora come identità religiosa o etnica. Il termine nazionalismo perciò porta inevitabilmente un significato: nazionalismo per i più indica la specialità dell’identità nazionale, comunque definita, e ci vorrebbero decenni se non secoli di pratica politica civica per “ripulire” il termine.
La seconda considerazione riguarda il tema dell’identità. Per esempio qualcuno pensa l’identità come una base sicura da cui partire. Altri hanno fatto notare che il termine identità è di per sé restrittivo. L’identità è qualcosa di statico, di dato, qualcosa che si ha (per alcuni si possiede per nascita, o attraverso l’educazione, ecc.).


Io preferirei invece parlare di identificazione: in questo caso si tratta invece di un processo, qualcosa dinamico e in divenire. Una persona decide di identificarsi con determinati valori attraverso la sua esperienza, il suo contatto con una cultura (o come spesso capita, dopo aver conosciuto altre culture uno riconosce o decide di identificarsi con la cultura del luogo dove si è formato). Identificazione non presuppone una identità statica, data una volte per tutte, ma presuppone un percorso individuale che può andare in diverse direzioni, che può mutare.


Dovrebbe essere chiaro a questo punto che l’identificazione dovrebbe essere un fatto personale, che rientra nella sfera individuale. E questo mi sembra un punto molto importatne: se l’identificazione è un fatto personale, non dovrebbe essere, secondo me, materia per l’intervento di uno stato o materia per un programma politico.


Mi spiego meglio: io credo che lo stato non debba essere laico o religioso, lo stato deve essere liberale. La grande idea della filosofia liberale (quella vera, non la parodia che se ne fa in Italia) consiste nel fatto che lo stato deve occuparsi di regolare la convivenza tra cittadini, deve fare in modo che i cittadini possano mettere a frutto il loro potenziale, ma non deve occuparsi della loro sfera privata. Uno stato non deve perciò occuparsi di quello che il cittadino pensa, prova, crede. Lo stato non dovrebbe dunque imporre o favorire una religione ai suoi cittadini. Allo stesso modo, io penso che lo stato non dovrebbe imporre una identità ai suoi cittadini (sia essa culturale, linguistica o religiosa). Penso che proprio perché l’identificazione attiene alla sfera privata, l’identificazione non debba essere il fondamento di un programma politico.


Questo è invece quello che avviene con ogni forma di nazionalismo sardo: l’identità da difendere, da preservare, è sempre alla base di un programma politico.


Questo non vuol dire che la cultura, la lingua e la storia sarda non debbano essere al centro di un programma politico o di governo: dipende da come lo si fa. Cosa dovrebbe fare un programma di governo? Dovrebbe dare gli strumenti ai cittadini per poter liberamente parlare il sardo nelle scuole, nelle professioni e nelle istituzioni se lo desiderano. Quindi io sarei favorevole a creare scuole dove l’insegnamento avvenga esclusivamente in sardo: ma come in altri paesi liberali, lascerei la scelta ai genitori se mandare il figlio alla scuola in sardo o a quella in italiano (o in un altra lingua, perché no?). Allo stesso modo uno stato sardo dovrebbe fornire gli strumenti per poter studiare e conoscere la storia e la cultura sarda. La differenza tra un programma liberale e uno nazionalista è che il programma nazionalista pone l’identità culturale come base fondante dell’appartenenza alla nazione (si è sardi perché si abbraccia l’identità culturale sarda), un programma liberale propone la cultura sarda come una possibile risorsa, un complesso di valori con cui identificarsi, ma l’appartenenza alla nazione non si basa su questa identificazione ma sull’aderenza e rispetto di principi basilari come la democrazia, la meritocrazia,ecc.


L’ultima considerazione che mi sembra importante riguarda proprio la definizione di una cultura. Una cultura non è mai univoca, un blocco unico, ma è inevitabilmente complessa. Tutte le culture ancora vitali nascono da stratificazioni e processi spesso contraddittori o contrastanti. Se prendiamo la cultura sarda, vediamo che sebbene esista un forte senso della comunità e del valore del fare collettivo, esiste anche una tendenza all’individualismo. O se consideriamo il ruolo importantissimo delle donne nella società sarda storica, è anche vero che esistevano processi che tendevano a limitare il della donna ad ambiti ristretti. Insomma, se uno prende la cultura sarda come base per definire quello che vuole essere, esistono diversi aspetti in cui uno potrebbe riconoscersi. Ma qui ritorniamo al contrasto tra identità e identificazione. L’identificazione presuppone che un individuo possa prendere ad esempio certi aspetti della cultura sarda, magari rielaborandoli o adattandoli (come del resto le culture vitali fanno spontaneamente). Identificarsi è perciò un processo per cui uno può prendere alcuni aspetti di una cultura e ritradurli. L’identità invece presuppone una definizione di che cosa è quella cultura, cosa la caratterizza, quali aspetti sono inclusi in essa e quali no.


In conclusione,  basare un programma politico o di governo sull’identità o la difesa degli “aspetti identitari” come fa il nazionalismo mi sembra un modo di riproporre una visione statica e veramente poco inclusiva di appartenenza ad una nazione, una visione basata sulla difesa di una identità culturale fossilizzata, la cultura sarda vista come un blocco unico e immutabile, tutto il contrario di quella complessità di processi e stratificazioni di cui ho parlato sopra. Per questo non posso dirmi nazionalista quando mi dico indipendentista


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Fallimento dell' Europa delle Regioni

Cosa ne è stato dell'Europa delle Regioni?
Dr. Oliver Perra


Introduzione

Nell'articolo “Ugo smascherato e respinto in Europa. ‘Lei non è Soru, ritorni con il titolare’” di Martedì 16 Giugno 2009 su Altravoce, Giorgio Melis si dice preoccupato che uno speciale comitato delle Regioni a Bruxelles possa non riconoscere Cappellacci come legittimato a sedere al tavolo, in quanto la rappresentanza sarda a questo speciale comitato era stata ottenuta dal predecessore Soru.


Questa preoccupazione di Melis indica quanto la politica in Sardegna sia diventata diatriba tra fan-club dell’uno o dell’altro leader di turno, tanto che sembra normale considerare che un ruolo in una istituzione europea sia stato conferito alla persona di Soru piuttosto alla carica istituzionale di Presidente della Regione Autonoma Sardegna (senza negare il ruolo che le iniziative di Soru hanno avuto nell’inserire la Sardegna all’interno di alcuni network a livello europeo).


Tuttavia, la questione che ritengo più importante e interessante per la Sardegna è quale ruolo possa avere la Sardegna in questo comitato e più in generale all’interno delle istituzioni dell’Unione Europea. Nonostante la Sardegna non sia una nazione sovrana, nonostante abbia un'autonomia limitata e di facciata, nonostante tutto questo, potrebbe la Sardegna avere qualche influenza e possibilità di promuovere i propri interessi attraverso la partecipazione alle istituzioni europee?


Penso che questo sia un punto fondamentale per poter giudicare i programmi dei vari politici sardi passati e futuri. Soru, durante la campagna elettorale delle Regionali 09 aveva insistito molto sul tema dell'"Europa delle Regioni", dicendo che la Sardegna poteva svolgere un ruolo politico importante coordinandosi con altre regioni europee del bacino mediterraneo e oltre. Esiste davvero questa possibilità?


In questo articolo quindi cercherò di analizzare quali possibilità e opportunità di partecipazione alle dinamiche decisionali europee esistono per una entità sub-statale come la Sardegna. È possibile che la Sardegna possa influenzare politiche europee direttamente e in prima persona, senza cioè la mediazione o l’intervento dello stato italiano? Può la Sardegna rappresentare le proprie istanze direttamente al livello sovra-statale europeo? Per capire quanto la Sardegna possa contare in Europa è perciò necessario considerare cosa ne è  stato dell”Europa delle Regioni”, quanto effettivamente le “regioni” europee abbiano acquisito accesso ai processi decisionali dell’Unione Europea. Qui di seguito parlerò di “regioni” europee per convenzione, ma è chiaro che questo termine è riduttivo e inadeguato in quanto in molti casi ci riferiamo a entità sub-statali, per esempio nazioni senza stato come Scozia e Sardegna. Insomma, “regioni” non è un termine adatto e non ci piace, ma lo useremo qui solo perché è il termine maggiormente usato nella letteratura scientifica e nel discorso politico (anche qui, non senza controversie: alcuni preferiscono parlare di “Europa dei Popoli”, come ricordato da Hepburn, 2008).

Per valutare lo stato dell’Europa delle Regioni ho ricercato tra riviste accademiche, trovando molto opportuno un numero monografico (Vol. 18, no. 5, 2008) della rivista Regional and Federal Studies intitolato appunto “Whatever happened to the Europe of the Regions”, ovvero, cosa ne è stato dell’Europa delle Regioni.  La rivista Regional and Federal Studies è una rivista peer-reviewed, il che significa che ogni contributo pubblicato è sottoposto anonimo a altri esperti nel settore . L’idea è che non conoscendo gli autori dell’articolo quando viene valutato, i “giudici” che lo leggono possano valutarlo più obiettivamente e solo per i suoi meriti scientifici. Gli articoli della monografia a cui ho attinto sono riportati qua sotto per chi volesse consultarli.


Nascita del concetto di Europa delle Regioni

Il concetto di Europa delle Regioni emerse con le riforme dei fondi strutturali europei che miravano a colmare il divario tra varie regioni dell’Europa allargata. Ma fu soprattutto il trattato di Maastricht a dare maggiore credibilità a questa idea. Infatti il trattato di Maastricht istituiva il Comitato delle Regioni (CoR), un organo consultivo, e dava a entità sub-statali o regionali la possibilità di sedere nel Consiglio dei Ministri.


Questo nuovo ordinamento europeo aveva dato vita alla speranza che potesse instaurarsi un "terzo livello" nei processi decisionali e istituzionali europei: a parte il livello statuale rappresentato dagli stati attualmente esistenti come Gran Bretagna, Francia, ecc., e a parte il livello sovranazionale rappresentato dall'Unione Europea, un terzo livello di rappresentanza sarebbe stato costituito dalle varie regioni europee impegnate a influenzare le decisioni a livello sovra-statale europeo, facendosi garanti diretti dei propri interessi e delle proprie istanze nel consesso sovranazionale. Insomma, questo terzo livello avrebbe permesso alle regioni di influenzare la politica europea indipendentemente dagli stati che includono le regioni, anzi, aggirando ogni mediazione dello stato per farsi interpreti diretti delle proprie istanze.


Questa idea di una Europa delle Regioni, come mostrato da Eve Hepburn, venne accettata entusiasticamente da i “rami” locali di partiti a livello statale (per esempio, i laburisti scozzesi) in quanto permetteva a questi partiti di legare il concetto di Europa delle Regioni a idee come decentralizzazione, autonomia, ecc. Per i partiti statali de-centralizzati come i laburisti scozzesi, l’idea di Europa delle Regioni permetteva di affermare che: (a) è possibile sostenere gli interessi specifici della regione all’interno dell’Unione Europea e senza necessariamente rinegoziare gli assetti statuali esistenti o rivendicare l’indipendenza;  (b) grazie all’attività di rappresentanti regionali all’interno delle istituzioni europee, i partiti statali de-centralizzati difendevano efficacemente gli interessi regionali, “rubando” il terreno ai partiti creati specificamente per rappresentare gli interessi locali (per esempio, Scottish National Party).

Eve Hepburn analizza più specificamente come l’idea di Europa delle Regioni sia stata interpretata ed usata dai vari partiti esistenti in Scozia, Baviera e Sardegna tra il 1979 (anno delle prime elezioni per il parlamento europeo) e il 2004. Mentre i maggiori partiti di Scozia e Baviera avevano visto nelle riforme europee un’opportunità per poter influenzare direttamente la politica europea in aree di interesse vitale per la regione, i politici sardi hanno completamente ignorato le opportunità di influenzare la politica europea, concentrandosi solo sulle opportunità economiche offerte dall’Europa. Come sostiene la Hepburn, piuttosto che vedere l’Europa come un luogo dove poter far valere le istanze specifiche della Sardegna e dove poter esercitare influenza sui processi decisionali, i politici sardi hanno visto l’Europa esclusivamente come una istituzione dispensatrice di sostegno economico. L’analisi della Hepburn sottolinea a nostro avviso la pochezza e povertà degli orizzonti dei politici sardi: anche laddove maggiore attenzione veniva data al ruolo della Sardegna in Europa (per esempio, nel programma di Sardegna Insieme nel 2004), mancava una visione integrata che prevedesse un impegno istituzionale della Sardegna in Europa e il primo obiettivo istituzionale rimaneva quello di riformare i rapporti istituzionali con lo stato italiano. Insomma, l’analisi della Hepburn sembra confermare, a nostro avviso, quello “sguardo di sbieco” che la politica sarda ha fatto proprio, quella concezione che fa credere che si debba necessariamente passare attraverso l’Italia per poter avere voce in Europa. La politica sarda sembra avere completamente fallito nel comprendere quali opportunità istituzionali si aprivano in Europa. Nel prossimo paragrafo prenderemo in considerazione quali effettive opportunità istituzionali esistono all’interno dell’Unione Europea per esercitare una influenza diretta sui processi decisionali.


Diretta rappresentanza delle regioni all’interno dell’Unione Europea

All’interno della monografia di “Regional and Federal Studies” ci sono due articoli che riguardano la rappresentanza delle regioni all’interno dell’Europa. In particolare, ho trovato molto utile l’articolo di Michaël Tatham intitolato Going solo: Direct regional representation in the European Union. L’articolo è molto interessante perché invece che semplicemente analizzare quali istituzioni esistono e quale è il loro ruolo, l’autore ha intervistato diversi politici e rappresentanti istituzionali ai vari livelli (regionale, statale, europeo). Le interviste sono anonimizzate, ma probabilmente grazie a questo l’autore è riuscito a ottenere un quadro più completo di come la diplomazia e la para-diplomazia funzionano all’interno di queste istituzioni, ovvero di come le cose si svolgono realmente al di là della versione ufficiale che l’Unione Europea fornisce del suo funzionamento. Qui di seguito analizzeremo perciò le varie istituzioni a cui le regioni partecipano all’interno dell’Unione Europea basandoci sull’analisi fornita da Tatham.

  1. Consiglio dei Ministri.
Il Consiglio, anche noto come Consiglio dei Ministri, è il principale organo decisionale all’interno dell’Unione Europea. Il consiglio include ministri da ciascun stato membro dell’Unione. Il tema discusso determina quali ministri sono invitati a partecipare alle discussioni: se per esempio la discussione è su qualche tema legato alle politiche agricole, verranno invitati i ministri dell’agricoltura degli stati membri. Il Trattato di Maastricht (art. 203) aveva concesso agli stati membri la facoltà di poter includere rappresentanti regionali nelle loro delegazioni al Consiglio. Tatham sottolinea però che esiste una distinzione tra regioni istituzionalmente forti e quelle istituzionalmente deboli. Finora solo regioni che hanno una maggiore forza istituzionale hanno avuto accesso alle delegazioni nel Consiglio, o in alcuni casi hanno addirittura preso il posto dello stato membro esprimendo un voto nel Consiglio. Queste regioni forti sono i Länder tedeschi e austriaci, le Comunità Autonome spagnole, le nazioni devolute della Gran Bretagna, e le due macro-regioni del Belgio.
È importante sottolineare che in ogni caso lo stato membro ha il potere di decidere quando e come ammettere rappresentanti regionali nella propria delegazione. Per questo motivo l’idea dominante è che le regioni siano chiamate all’interno del Consiglio solo fintanto che la posizione delle regioni è consona a quella dello stato. Prima che uno stato ammetta una propria regione a partecipare al Consiglio, il ministro dello stato discute con i rappresentati della regione in modo da raggiungere una posizione condivisa. In altre parole, le regioni non avrebbero il potere di rappresentare indipendentemente i propri interessi all’interno del Consiglio, soprattutto quando questi non coincidono con le posizioni dello stato di cui la regione fa parte.
Tuttavia, alcune figure istituzionali sottolineano che il solo fatto che una regione sia presente all’interno delle delegazioni mette il ministro dello stato che include la regione in una posizione in cui il ministro ha un obbligo, quantomeno informale, di tener presente e far presente la posizione della regione. Inoltre, le regioni che partecipano alle discussioni possono far presente il loro punto di vista. Questo potere di parola delle regioni può essere usato per indebolire o rafforzare la posizione presa dallo stato nella discussione con gli altri stati membri. Per esempio, se il ministro dell’agricoltura britannico assume una posizione e i rappresentanti di Scozia, Galles e Nord Irlanda sostengono quella posizione, il ministro britannico si troverebbe in una posizione di forza e può essere intransigente, sostenendo di rappresentare non solo la posizione dello stato ma anche quella delle altre nazioni all’interno dello stato. Viceversa, se i rappresentanti di Scozia e Galles comunicano qualche dubbio sulla posizione rappresentata dal ministro britannico, il ministro britannico si troverebbe in una posizione più debole in quanto “minata dall’interno”.

  1. Commissione Europea.
La Commissione è l’organo esecutivo, dotato della facoltà di proporre leggi e responsabile della loro esecuzione. I commissari sono proposti dagli stati membri e rimangono in carica per 5 anni, previa approvazione del Parlamento Europeo. La Commissione è responsabile di fronte al Parlamento Europeo: il Parlamento ha il potere di “censurare” la Commissione, forzando le dimissioni di tutti i commissari. Tatham evidenzia che la Commissione ha il monopolio delle iniziative legislative. Uno dei doveri costituzionali di questo organo è quello di consultare una vasta gamma di istituzioni e attori prima di proporre una legislazione. Per questo motivo la Commissione è disponibile al dialogo.
Tatham sostiene che alcune regioni sono state più intraprendenti di altre nell’usufruire dell’apertura al dialogo della Commissione: regioni con più mezzi e una maggiore conoscenza del funzionamento delle istituzioni europee non si lasciano sfuggire l’occasione di far conoscere le proprie posizioni alla Commissione. Alcune figure istituzionali intervistate da Tatham evidenziano anche che la Commissione può sfruttare divergenze di opinioni tra regione e stato riguardo un tema per far passare la propria linea. In altre parole, nel processo di negoziazione, la Commissione può, in modo molto cauto e indiretto, indebolire la posizione di uno stato membro se una regione all’interno dello stato assume una posizione contrastante. Indirettamente questo può dare ad una regione una certa influenza sulle decisioni prese.
Tuttavia, l’influenza delle regioni sulla Commissione sembra essere limitata da due fattori: l’importanza del tema su cui la Commissione lavora e il tempismo con cui la regione fa presente la propria posizione. Per quanto riguarda l’importanza del tema, una regione ha maggiore probabilità di influenzare le decisioni della Commissione se lo stato di cui la regione fa parte non ha un interesse diretto sul tema in questione, o lo stato è indifferente riguardo al tema. In questo caso, lo stato non avrebbe motivo di contrastare la posizione assunta dalla regione. Per quanto riguarda il tempismo, le regioni possono influenzare i lavori della Commissione intervenendo nelle fasi iniziali del processo decisionale. In altre parole, le regioni possono in un certo senso aiutare a “dare forma” ad una certa proposta. Tuttavia, non avendo potere di voto, le regioni non hanno potere di influenzare il processo decisionale nelle sue fasi finali. In conclusione, ancora una volta Tatham rimarca che le regioni istituzionalmente forti hanno maggiore accesso e influenza sulla Commissione.

  1. Parlamento Europeo.
Il Parlamento Europeo ha poteri decisionali in alcune materie, poteri che condivide con la Commissione Europea. Come evidenziato parlando delle altre istituzioni, anche all’interno del Parlamento Europeo esistono differenze tra regioni istituzionalmente forti e quelle deboli. Tra i parlamentari europei hanno maggiore autorevolezza e influenza quelli che rappresentano circoscrizioni regionali, particolarmente quelli provenienti da regioni con istituzioni regionali democratiche e forti.
Uno dei poteri del Parlamento Europeo è quello di scrutinare le proposte della Commissione Europea. Questo vuol dire che all’interno del Parlamento i parlamentari possono criticare molto aspramente e duramente l’azione della Commissione, e farlo per di più in un’arena pubblica. Inoltre i parlamentari europei hanno un certo vantaggio rispetto ai commissari europei, vantaggio consistente nel fatto che i parlamentari sono democraticamente eletti. I commissari europei (designati da stati membri) sono perciò molto sensibili ad ogni critica che proviene da parlamentari che possono affermare di parlare a nome di una entità istituzionale forte come la Scozia, la Catalogna, la Baviera, ecc. I commissari europei sostengono di essere molto attenti a giustificare le loro proposte e decisioni di fronte alle critiche di parlamentari provenienti da regioni “forti”, proprio perché questi parlamentari sono comunque percepiti come i rappresentanti popolari di entità sub-statali o nazioni europee. È inoltre pratica comune che istituzioni regionali o rappresentanti regionali in Europa si alleino con parlamentari dalla stessa regione per esercitare maggiore pressione sulla Commissione Europea anche attraverso il parlamento. Inutile dire che Uggias - il nostro rappresentante al Parlamento Europeo eletto con circa 17 mila voti e grazie al favore di chi ha rinunciato prima di lui -  difficilmente avrà di fronte alle istituzioni europee l’autorità di parlare a nome di tutta la Sardegna.

4. Comitato delle Regioni.
Il Comitato delle Regioni (CoR), istituito con il trattato di Maastricht, è un organo consultivo che include diversi rappresentanti di istituzioni europee. Attualmente tra i sardi troviamo il Presidente della Regione Ugo Cappellacci, il Presidente della Provincia di Cagliari Graziano Milia e il sindaco del paese di Armungia. Questo organo è stato spesso criticato per non avere uno scopo preciso, essere troppo eterogeneo e per essere privo di ogni potere decisionale. Tuttavia è un organo che di fatto viene consultato su diverse questioni che riguardano la politica europea. Dalla ricerca svolta da Tatham sembra che l’influenza di questo organo sia limitata a due casi: (a) se la Commissione Europea assume una certa posizione su un tema, può ricercare nel Comitato delle Regioni un alleato per sostenere questa posizione; (b) se la Commissione Europea non ha ancora elaborato una precisa posizione su un certo tema, può consultare il Comitato delle Regioni, il quale in questo caso può contribuire a dare forma ad una proposta che rifletta gli interessi “regionali”. A parte questi due casi, il Comitato delle Regioni ha un ruolo istituzionale molto debole.

  1. Uffici Regionali a Bruxelles.
Anche in questo caso esiste un grosso divario tra regioni istituzionalmente forti e quelle deboli. Le regioni con istituzioni regionali forti hanno un accredito diplomatico dallo stato che le include. Questo significa che i rappresentanti delle regioni possono avere accesso ai memorandum e altri documenti ufficiali degli stati membri e hanno accesso alle riunioni della Commissione e del Consiglio. In sostanza regioni “forti” hanno maggiore accesso e conoscenza delle istituzioni europee, e possono perciò imparare come queste funzionano. Le regioni istituzionalmente forti sono anche quelle che hanno maggiori risorse per incrementare la propria presenza e visibilità nell’Unione Europea. Per esempio, la Baviera ha un ufficio di rappresentanza che si trova tra la sede del Comitato delle Regioni e il Parlamento Europeo a Bruxelles, un ufficio che impiega 13 persone stabilmente (Moore, 2008), mentre un altro Land tedesco, il Baden-Württemberg, impiega circa  40 persone nel proprio ufficio di rappresentanza (Tatham, 2008). Insomma, esiste una notevole disparità di risorse da impiegare nel tentativo di influenzare la politica continentale tra diverse regioni europee. Tuttavia, esiste anche una notevole disparità negli gli obiettivi politici delle regioni: mentre regioni come Baviera, Scozia, Galles, ecc.  mirano a esercitare influenza diretta sulla politica europea, le rappresentanze di altre regioni hanno solo interesse nei fondi e sussidi europei.

              6. Networks e associazioni europee.
Esistono diversi tipi di associazioni europee che comprendono rappresentanti regionali, per esempio la Conferenza delle Regioni Marittime Periferiche, l’Assemblea delle Regioni Europee, e altre. Alcune di queste sembrano essere meglio connesse e meglio equipaggiate di altre. Quelle meglio equipaggiate possono agire efficacemente nel contattare commissari europei o a volte il Presidente della Commissione Europea stesso, e in alcuni casi riescono anche ad ottenere un impegno formale dai commissari su alcune questioni di rilievo. Attraverso l’azione di questi network alcune regioni possono perciò influenzare alcune decisioni. Questi network sembrano essere particolarmente utili per regioni che altrimenti avrebbero difficoltà ad far presente la loro posizione. L’esistenza di un network di regioni conferisce a queste associazioni maggiore autorevolezza rispetto ai singoli uffici regionali. Tuttavia il potere che queste associazioni hanno nell’influenzare decisioni a livello europeo è sporadico.


Conclusioni

L’analisi della rappresentanza regionale all’interno dell’Unione Europea dimostra quanto le opportunità per rappresentare i propri interessi e istanze a livello sovranazionale siano appannaggio di alcune regioni maggiormente intraprendenti e con maggiori risorse. Per esempio, solo le regioni che hanno un assetto istituzionale forte, con poteri effettivi (Scozia, i Länder tedeschi, ecc.) hanno accesso al Consiglio dei Ministri. Queste regioni sono anche maggiormente in grado di partecipare ai processi diplomatici e para-diplomatici europei, per esempio accedendo “dall’interno” alla vita istituzionale europea grazie all’accredito diplomatico concesso dagli stati membri, e riuscendo a individuare i tempi e i modi per far sentire la propria voce all’interno delle istituzioni rilevanti. Inoltre queste regioni hanno anche la possibilità di coalizzarsi con parlamentari eletti che possono contribuire ad esercitare influenza sugli organi decisionali europei.
Tuttavia ogni influenza che una regione anche “forte” può avere nell’influenzare la politica europea è formalmente limitata e condizionata all’azione degli stati membri che agiscono in molti sensi come “guardiani” dell’accesso che le regioni ottengono alle istituzioni (Elias, 2008a). Per esempio, la partecipazione delle regioni al Consiglio è condizionato all’assenso dei ministri dello stato. Oppure, sebbene le regioni possano accedere alla Commissione Europea per cercare di influenzare il suo operato, la Commissione non può comunque prendere una posizione in favore di una regione se questa è in contrasto con la posizione dello stato. Come sostenuto da una commissaria intervistata da Thatham: “ per noi [Commissione Europea] la posizione della Francia è quella che Parigi sostiene durante i negoziati. Noi non diremo mai ‘Oh, ma la Bretagna ha una posizione completamente diversa su questo punto’. Lo stato membro ha un suo processo di coordinamento prima delle negoziazioni e noi non possiamo né vogliamo mettere in discussione se questo coordinamento è avvenuto o no” (Tatham, 2008, pag. 503).
Insomma, le regioni europee non hanno in sostanza ricevuto maggiori competenze e poteri rispetto agli stati. Le regioni non sono diventate “partner” all’interno dell’Unione Europea in quanto la loro influenza rimane pur sempre subordinata a quella degli stati membri. Come sottolinea Elias (2008a), solo alcune regioni hanno avuto successo nel partecipare alla politica europea (e a costo di una intensa attività diplomatica e paradimplomatica, come sottolineato sopra) ma anche queste regioni non sono in grado di determinare le decisioni nodali della politica europea. La conclusione unanime della monografia del “Regional and Federal Studies” è che il “terzo livello” di rappresentanza, il livello in cui le regioni influenzano direttamente la politica europea indipendentemente dagli stati e aggirando ogni mediazione con essi, questo livello non si sia mai compiutamente realizzato. L’Europa delle Regioni rimane dunque un progetto incompiuto.
A peggiorare la situazione, il nuovo assetto istituzionale dell'Europa, quello che si sta delineando col nuovo trattato costituzionale europeo e l’ulteriore allargamento, è estremamente avverso a ogni concessione alle regioni e verte su un ruolo centrale per gli stati. A ciò ha contribuito anche l'entrata in Europa di nazioni profondamente avverse ad ogni rivendicazione delle nazioni senza stato. La nuova costituzione europea era stata delineata durante la Convenzione sul Futuro dell’Europa. In questa sede, la European Free Alliance, l’associazione dei partiti che rappresentano i movimenti di nazioni senza stato e minoranze nazionali all’interno di stati membri, aveva avanzato diverse proposte per dare un ruolo istituzionale concreto alle regioni. La maggior parte di queste proposte non è stato incluso nella costituzione, col risultato che l’Unione Europea rimane una unione di stati in cui essi hanno accesso privilegiato alla politica e possono esercitare controllo sull’accesso accordato alle “regioni”. Dopo la Convenzione sul Futuro dell’Europa, Jordi Pujol, leader catalano di Covergència i Unió, disse: "Abbiamo perso molti dei privilegi che avevamo guadagnato. Non abbiamo più slancio".
È tra l’altro molto significativo che proprio alcuni dei partiti regionali che hanno avuto maggiori opportunità e occasioni di partecipare ai processi istituzionali europei siano diventati maggiormente scettici rispetto all’effettiva influenza che una regione può esercitare in Europa. Per esempio lo Scottish National Party o il Plaid Cymru in Galles, nonostante abbiano ottenuto un posto tra gli attori regionali “forti” all’interno dell’Unione Europea, sono due partiti che dopo aver considerato alcune posizioni che potremmo definire “autonomiste”, hanno optato decisamente per un programma indipendentista (Elias, 2008b; Hepburn, 2008) giustificandolo col fine di ottenere maggiore influenza all’interno dell’Europa. Come sottolinea la Hepburn, questi partiti che hanno avuto la possibilità di partecipare in prima persona ai vari livelli di diplomazia e para-diplomazia disponibili per le regioni più influenti in Europa sono anche i partiti che hanno potuto verificare quanto effettivamente limitato sia il ruolo delle regioni all’interno dell’Unione Europea.
Anche laddove le regioni sembravano avere un potere effettivo, cioè nell’assunzione e utilizzo di fondi strutturali europei, in realtà sono gli stati ad avere un ruolo prioritario. L’elargizione dei fondi e il loro uso è infatti negoziato e deciso tra l’Unione Europea e lo stato membro, e non direttamente tra regione e Unione Europea (Keating, 2008).
In definitiva, il ruolo delle regioni all’interno dell’Unione Europea sembra essere estremamente limitato e condizionato dall’azione di supervisore degli stati membri. L’idea di Europa delle Regioni sembra aver dato vita a una serie di istituzioni e network che sono disponibili solo per alcune regioni istituzionalmente forti e con risorse adeguate, ma che comunque non offrono un ruolo formalmente riconosciuto e efficace per queste regioni. L’idea di Europa delle Regioni sembra perciò essere diventata impraticabile, non essendo riuscita a creare un ruolo effettivo che prescindesse dagli stati. Il problema che pervade l’orizzonte politico europeo è che mentre il progetto di integrazione europea fornisce una giustificazione ideologica a un’idea di Europa in cui altri attori oltre gli stati possano agire direttamente per rappresentare le proprie istanze, l’Unione Europea invece fornisce uno ruolo istituzionale efficace solo agli stati e non ad entità sub-statali (Keating, 2008).


La Sardegna di fronte all’Europa


In conclusione, è sempre più chiaro che le regioni non avranno un ruolo effettivo nelle istituzioni europee nel prossimo futuro. La Sardegna, in posizione marginale all'interno dell'assetto istituzionale italiano, non può certo sperare di poter avere un ruolo preponderante attraverso la partecipazione alle istituzioni e network europei.
Ciò non vuol dire che la partecipazione a queste istituzioni e network sia inutile. Al contrario, la ricerca condotta da Tatham dimostra che le regioni possono raggiungere un certo grado (limitato) di influenza. Il fatto stesso che le regioni investano sempre di più nella propria rappresentanza a Bruxelles suggerisce che esistano effettivi vantaggi nella partecipazione alle istituzioni europee (Moore, 2008). La Sardegna ha un ufficio di rappresentanza che, dai documenti esistenti, sembra soprattutto preoccuparsi di individuare progetti Europei e opportunità di finanziamenti e sussidi. Ben diverso il ruolo ricoperto in Europa da altre “regioni”. Per esempio, a parte l’ufficio della Regione Sicilia, l'Assemblea Regionale Siciliana ha un ufficio di rappresentanza a Bruxelles. Come il Parlamento Scozzese o l’Assemblea Gallese, il Parlamento Siciliano ha un sua rappresentanza diretta in Europa. Come sottolineato da Moore (2008), lo scopo di questa rappresentanza è da una parte facilitare la conoscenza diretta dei processi istituzionali europei. Ma l’altro scopo è quello di dare visibilità e riconoscimento al Parlamento siciliano, una visibilità che si può poi spendere in termini di influenza politica.
Insomma, l’attività diplomatica e para-diplomatica all’interno dell’Unione Europea non è una attività inutile e potrebbe sicuramente giovare alla Sardegna, permettendo di ottenere una qualche forma di influenza sull’elaborazione politica europea. Sarebbe poi sicuramente utile se i politici sardi maturassero una visione “a tutto tondo” del ruolo della Sardegna, ovvero una visione che includa qualche idea sul ruolo della Sardegna in Europa, oltre che una visione della Sardegna all’interno degli assetti statali italiani. I rapporti Sardegna-Europa e Sardegna-Italia si potrebbero influenzare reciprocamente: per esempio, se dimostrasse maggiore iniziativa istituzionale a livello Europeo, la Sardegna potrebbe usare questa iniziativa per rinegoziare le proprie competenze istituzionali all’interno dell’Italia. Viceversa, rinegoziando le competenze istituzionali all’interno dell’Italia, la Sardegna potrebbe ottenere maggiore autorevolezza all’interno delle istituzioni europee.
Tuttavia, il fatto che il progetto di Europa delle Regioni si sia dimostrato incapace di fornire un ruolo effettivo alle entità sub-statali, anche quelle più forti e con più risorse, dimostra secondo noi che l’unico modo per poter davvero “entrare” in Europa, l’unico modo per poter avere un ruolo formalmente effettivo ed efficace, è quello di diventare uno stato sovrano all’interno dell’Europa.



Bibliografia

              Elias, Awen (2008a). Introduction: Whatever Happened to the Europe of the Regions? Revisiting the Regional Dimension of European Politics. Regional & Federal Studies, Volume 18 (Issue 5), Pages 483 – 492.
              Elias, Awen (2008b). From Euro-enthusiasm to Euro-scepticism? A Re-evaluation of Minority Nationalist Party Attitudes Towards European Integration. Regional & Federal Studies, Volume 18 (Issue 5), Pages 557 – 581.
              Hepburn, Eve (2008). The Rise and Fall of a ‘Europe of the Regions’. Regional & Federal Studies, Volume 18 (Issue 5), Pages 537 – 555.
              Keating, Michael (2008). A Quarter Century of the Europe of the Regions. Regional & Federal Studies, Volume 18 (Issue 5), Pages 629 – 635.
              Tatham, Michaël (2008). Going Solo: Direct Regional Representation in the European Union. Regional & Federal Studies, Volume 18 (Issue 5), Pages 493 – 515.

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