La musica indipendente: Una analogia politica

Io sono stato un adolescente negli anni ‘80: come altri adolescenti allora, diventai un vorace ascoltatore di “musica indipendente”, musica prodotta da gruppi affiliati a piccole case discografiche, indipendenti rispetto alle grosse case discografiche come EMI, Sony e altre.

La musica indipendente non era un genere musicale: in questa categoria rientravano gruppi che facevano musica molto diversa, dalla musica eterea dei Cocteau Twins alle sperimentazioni con il feedback dei Jesus & Mary Chain; dalla musica elettronica dei New Order al "rock" degli Smiths.

Tuttavia le band indipendenti condividevano un’etica: rimanere indipendenti era una scelta precisa di molte di queste band, una scelta dettata dalla volontà di avere maggior controllo e libertà sui vari aspetti della produzione musicale e artistica. Gli Smiths erano un caso emblematico: non solo questa band aveva il pieno controllo sulle musiche e i testi che scrivevano, ma la band decideva anche sulle copertine dei dischi e la loro immagine, creando nel complesso un prodotto artistico con un'estetica unica e immediatamente riconoscibile.



Mentre le band che firmavano per le grandi case discografiche potevano permettersi produzioni raffinate, grossa pubblicità, videoclip spettacolari, e così via, le band indipendenti non avevano le stesse risorse a disposizione. Tuttavia le band indipendenti credevano che mantenendo la propria autonomia nel processo di produzione musicale esse potessero, non di meno, creare dei prodotti musicali di qualità e, soprattutto, innovativi.

L’analogia politica dovrebbe essere evidente a questo punto. Piccole nazioni non hanno a disposizione le stesse risorse dei grandi stati sovranazionali (per es. la Gran Bretagna o la Spagna). Tuttavia, come sostiene efficacemente l’economista Adam Price, piccole nazioni possono compensare la mancanza di risorse con altre qualità che i grandi stati non hanno. Per restare nell’analogia musicale sottolinerei il fatto che piccole nazioni indipendenti hanno il vantaggio di una maggiore coesione al proprio interno e la capacità di innovare.

Analogamente, le band indipendenti erano più coese, non avendo le stesse pressioni provenienti dalle diverse figure che girano intorno alle band che incidevano per grosse etichette: una grossa band deve conciliare le pressioni di diversi manager, produttori, stilisti, e altre figure professionali; un altro conto è esere una band come gli Smiths e avere un gruppo di lavoro ristretto ma che condivide una visione artistica comune.

D’altra parte, la libertà delle band indipendenti permetteva loro di sperimentare e innovare. In questo senso, la storia della musica indipendente è una storia di successi: band come Jesus & Mary Chain, per esempio, avevano aperto la strada a sperimentazioni che poi saranno riprese e portate avanti da altri gruppi come i My Bloody Valentine (altra band indipendente), sperimentazioni che hanno poi influenzato il suono di molte band come gli Smashing Pumkins, Radiohead, o gli U2.

L’analogia è dunque qua. Piccole nazioni indipendenti sono più coese e per questo hanno meno problemi nell'essere governate, non dovendo mediare tra interessi di vari gruppi spesso in contrasto tra loro. Piccole nazioni indipendenti sono anche più aperte al cambiamento e all’innovazione. In periodi di crisi, come sostiene Adam Price, saranno magari le piccole nazioni indipendenti che avranno possibilità di navigare meglio nel mare grosso, e questo proprio in virtù della loro leggerezza, del loro essere “piccole” e indipendenti.

Mi è sempre piaciuta la musica indipendente, sarà per questo che penso ad una Sardegna indipendente come a una bel pezzo di musica nella collezione delle musiche del mondo.

Sulla leadership

Tornare in Sardegna e parlare di politica significa spesso anche affrontare il tema della leadership, e questo è tanto più vero quando, come me, si è scelto un partito che ha rifiutato il “liderismo” non solo a parole, ma nei fatti (come dimostrato dal fatto che figure che pretendevano di avere un ruolo egemonico sottratto a ogni critica e verifica, si siano allontanate dal progetto).

Nelle discussioni che nascono inevitabilmente su questo tema, molti ripetono che, comunque, un leader, o dei leader, servono ad un progetto politico. Il problema è anche come intendere la leadership.

In Italia, e in Sardegna, ché su questo tema ha fatto propri i vizi italiani, il leader nelle organizzazioni politiche è inteso come una figura carismatica e che, in virtù del proprio carisma e di doti eccezionali, ha il diritto di decidere, guidare, fare e disfare a suo piacimento. Il modello del leader italiano è un modello elitario: il leader e la sua cerchia ristretta hanno l’esclusiva e il monopolio delle informazioni, informazioni che passano al resto della organizzazione (gli attivisti, gli iscritti al partito, ecc.) solo al fine di manipolare e accrescere il proprio potere. Dunque, oltre al carisma e alle doti eccezionali, il leader italiano non è criticabile perché è il depositario unico della conoscenza.
Possiamo pensare a casi italiani, a destra come a sinistra. Ma, per chi l’ha vissuta, una simile dinamica si era anche vista in iRS pre-spaccatura, quando un ristretto gruppo deteneva l’esclusiva sulle informazioni importanti riguardo le dinamiche interne, usandole opportunisticamente per i propri scopi egemonici. In questo senso, la leadership di iRS, anche quella -a parole- democratica, funzionava come le agenzie immobiliari: trattenendo informazioni o rivelandole solo parzialmente a seconda dei propri fini era possibile manipolare gli attivisti.

In Gran Bretagna invece il concetto di leadership è molto diverso. Una definizione che mi è piaciuta è quella secondo cui il leader è “colui che si assicura che tutti puntino verso la Stella Polare”.
In questa definizione ci sono diversi elementi importanti:

  1. Il leader non ha il monopolio della conoscenza, ma è colui che aiuta gli altri ha ottenere la conoscenza necessaria a raggiungere gli obiettivi. Ovvero, il leader è colui che condivide conoscenze e gli strumenti necessari ad ottenerle. Insomma, una definizione che invece che essere elitaria (del tipo: noi siamo la classe dirigente), è inclusiva.
  2. Il prestigio del leader non si basa su carisma o doti eccezionali che sarebbero appannaggio esclusivo del leader, si basa sul saper cogliere dati di fatto. La posizione della Stella Polare è un dato di fatto, un dato oggettivo (chiunque può verificare dove sia la Stella Polare). Ovvero, le capacità del leader si rivelano non perché le persone si fanno affascinare dal sua carisma o dalla sua intelligenza, ma perché il leader aiuta ad acquisire dati di fatto che possono portare a soluzioni. In questa definizione sussiste il principio che la leadership sia comunque sottoposta a verifica e discussione: un leader che sbagli nell’indicare la Stella Polare, e fa sbagliare gli altri, non sarebbe un buon leader.
  3. Infine, in questa definizione è incluso il principio che il leader aiuti gli altri a diventare essi stessi leader: se uno apprende le competenze per trovare la Stella Polare, a sua volta potrà passare queste competenze ad altri e fare in modo che altri possano puntare verso la Stella Polare. In questa definizione c’è un principio democratico, secondo cui il leader fa in modo che altri maturino quelle qualità necessarie a guidare.
Dunque, la leadership può essere utile nelle organizzazioni se intesa nel modo “britannico” descritto sopra: La leadership intesa in questo modo non serve a delegare responsabilità, quanto a contribuire a ché tutti i membri dell’organizzazione prendano le proprie responsabilità. Una repubblica giusta e prospera nascerà solo dalla presa di responsabilità di ogni cittadino di Sardegna, non dal semplice rinnovo di una “classe dirigente” a cui delegare le proprie responsabilità.

Impresa Sardegna

In una trasmissione di Videolina, l’onorevole La Spisa si lamentava del fatto che uno dei problemi della Sardegna fosse la mancanza di imprenditori e spirito imprenditoriale.

Sicuramente io non sono rappresentativo, ma nella mia esperienza personale tra i sardi che conosco ce ne sono molti che, nel loro piccolo, fanno impresa o sono imprenditori.
Le statistiche, quelle che sono riuscito a trovare, sembrano anche confortare questa mia impressione: il 25% della forza-lavoro sarda lavora in proprio (una percentuale maggiore rispetto ad altre regioni dalla celebrata mentalità imprenditoriale come il Veneto).

Per quanto questo sia un dato molto approssimativo e limitato, esso sembra indicare che esista una consistente percentuale di sardi disposti a mettere a frutto le proprie iniziative e idee nel lavoro, ovvero fanno impresa.

La domanda che ci si dovrebbe fare è allora: perché questo potenziale di imprenditori non incide abbastanza sul profilo economico sardo, creando maggiore benessere?

Gli ostacoli a fare di questi imprenditori storie di successo economico sono, secondo me, sopratutto nelle politiche e nelle istituzioni. La Spisa e gli altri eletti per amministrare la Sardegna dovrebbero perciò prendersi la loro parte di responsabilità invece che scaricarle facilmente.

Quali sono questi ostacoli a creare benessere dall’esistente imprenditoria sarda? Secondo me ne esistono fondamentalmente tre. La mia esperienza è molto limitata, sarei quindi felice di discuterne e rivedere le mie opinioni se qualcuno potesse mostrare evidenza per sostenere opinioni diverse.

a) Mancanza di accesso al credito. Le banche in Sardegna sono, tutte o quasi, gestite da gruppi basati fuori dalla Sardegna, e che quindi non hanno fondamentalmente a cuore l’interesse della Sardegna (né, probabilmente, sufficiente conoscenza del tessuto economico sardo). La mancanza di accesso al credito impedisce a una impresa di espandersi e avere successo.

b) Mancanza di competenze tecnologiche a servizio delle imprese. Fare impresa di successo non e’ solo questione di espandere l’impresa, è spesso questione di innovare. Ma per innovare e’ necessario avere conoscenze tecniche, competenze che molti imprenditori non hanno e non possono avere. In Sardegna esiste pochissima comunicazione tra impresa e ricerca, o impresa e università, e questo è uno dei campi in cui i nostri amministratori potrebbero decisamente fare di più e meglio.
c) Mancanza di competenze organizzative. Ingrandire una impresa e farla divenire una storia di successo è anche questione di organizzare l’impresa per ottenere nuovi obiettivi (per esempio, organizzare una infrastruttura per assicurare che i prodotti di un caseificio siano esportati). Non tutti gli imprenditori possono possedere queste competenze, e sarebbe perciò importante se gli amministratori potessero favorire la coordinazione tra imprese e mettere a disposizione queste competenze organizzative

In tutti questi tre fattori indicati sopra, il governo della Sardegna potrebbe fare molto, ma non fa.

Il fatto che l’impresa sarda non crei maggiore benessere è dunque un fallimento della politica. L’imprenditoria è una impresa collettiva, come sostiene l’economista Ha-Joon Chang, tra gli altri: non bastano gli imprenditori da soli, gli imprenditori hanno bisogno di una serie di strumenti e infrastrutture che solo l’azione collettiva, e prime fra tutte la politica, può mettere a disposizione. Senza dimenticare la parte di responsabilità che ognuno ha, il basso profilo dell’impresa sarda dovrebbe costituire un segnale che spinga gli amministratori sardi  a prendere atto delle proprie mancanze nei confronti di chi gli ha eletti.

Sardinian Pop-Star

Il Sardinia(n) Post riporta la notizia che la Regione Sardegna ha stanziato 150 mila Euro per formare un numero di giovani sardi che aspirano a diventare Pop-Star. Il progetto chiamato “Sardegna rock – Sardegna pop”  beneficerà, oltre ai giovani sardi selezionati, il paroliere noto come Mogol, il quale ha fondato e dirige l’altisonante  “Centro Europeo Tuscolano” che forma studenti nell’arte di interpretare e scrivere musica leggera.

Questa settimana, ancora una volta, i media confermano la gravità del problema della dispersione scolastica in Sardegna. Ma l’assessore regionale Milia ci conforta: il progetto di spedire  (a spese dei contribuenti) giovani sardi di talento per fargli imparare a interpretare e scrivere musica potrebbe essere “da stimolo per tanti ragazzi sardi che a volte smarriscono la strada dell’istruzione“.

Sarcasmo a parte, quello che mi colpisce di questa vicenda sono due cose:
1) La mancanza di una logica e una coerente visione a lungo termine.
In ogni amministrazione pubblica decorosa, il problema della dispersione scolastica sarebbe visto come una emergenza (inutile dire che un problema del genere dovrebbe meritare le prime pagine dei giornali e dovrebbe meritare maggiore attenzione da parte dell’accademia sarda).
Preso atto del problema, una amministrazione pubblica decorosa stilerebbe un piano di intervento per affrontare questo problema, un piano coerente e in cui i vari interventi rientrino in questa logica.
Per esempio, ammesso che la dispersione scolastica sia causata, in parte, dalla percezione della mancanza di prospettive dopo gli studi, una amministrazione decorosa potrebbe invogliare diversi studenti a incanalarsi verso discipline e competenze che sono ricercate e ben retribuite. Per esempio, esiste un gran bisogno di persone in grado di analizzare dati e queste persone sono ricercate e retribuite nel mercato del lavoro. Una amministrazione decorosa potrebbe allora cercare di orientare studenti verso l’apprendimento di competenze quantitative.
In mancanza di una logica, gli amministratori sardi si lasciano facilmente affascinare dalla pubblicità, dalla propaganda e dal “sensazionalismo”. Ecco allora che fondi destinati a sviluppare competenze quantitative vengono dirottati per corsi di danza: la danza è senz’altro più affascinante e cattura la fantasia dei nostri amministratori. O basta un nome famoso che propone corsi per pop-star che i nostri amministratori si precipitano a dare tutto il supporto necessario per il sogno di diventare celebrità.

2) Il secondo aspetto che mi colpisce in questa vicenda è l’assoluta mancanza di responsabilità di chi amministra la Sardegna. Verrebbe da pensare che un assessore regionale può evidentemente disporre di fondi pubblici e della famosa “cosa pubblica” come meglio crede. Mi chiedo infatti quanti hanno vagliato, testato e valutato lo stanziamento di 150 mila Euro per un progetto per giovani pop-star.
In una amministrazione pubblica decente una simile decisione sarebbe stata messa in discussione chiedendo all’amministratore che l’ha sponsorizzata di dimostrare quali benefici ci si aspetta da questa iniziativa, come questi benefici saranno quantificati e quando saranno valutati. Mi potrei sbagliare, ma immagino non esistano precise definizioni dei risultati intermedi e a lungo termine che questa iniziativa “Sardegna pop” dovrebbe ottenere. In definitiva, l’iniziativa finirà come tante altre di questo genere: nessuno saprà o verificherà se ha avuto effetti, che risultati si sono ottenuti, nessuno renderà conto di aver speso 150 mila Euro di soldi pubblici per una iniziativa senza una logica coerente.

La liberalità con cui gli amministratori della Sardegna elargiscono fondi per iniziative “sensazionalistiche” di questo genere dimostra il problema di una società a basso tasso di democrazia, dove gli amministratori possono disporre della cosa pubblica senza dover rendere conto puntualmente di come gestiscono quello che dovrebbe essere un mandato, non una investitura.

Visionari, visioni e storia. Da Londra alla Sardegna

  Belfast, Northern Ireland, 1st of August 2012

La cerimonia inaugurale delle olimpiadi di Londra ha probabilmente sorpreso e confuso alcuni. La prima considerazione che si potrebbe fare è che un regista di origine irlandese e non esattamente conformista, Danny Boyle, è stato chiamato a organizzare una cerimonia usata in genere per esaltare la storia e il patrimonio culturale di una nazione. Non solo, Danny Boyle è stato lasciato libero da interferenze politiche, dando una visione personale di ciò che è giusto esaltare nella storia delle nazioni del Regno Unito.

Non a tutti questa libertà concessa all’artista è piaciuta: alcuni membri del partito conservatore hanno lamentato che la visione della storia del Regno Unito proposta da Boyle era troppo “di sinistra” e qualcuno si è lamentato che la cerimonia non era altro che un costoso spot elettorale per il partito Laburista.

Quest’ultima frase illustra qual è il fulcro della questione: ovvero, il senso che si vuole dare ad essere nazione, quali sono gli elementi che si vogliono esaltare, elementi cardine per identificarsi con una storia e una serie di valori condivisi. Come dicevo in un altro post, ogni cultura è complessa e stratificata, e spesso contiene elementi diversi e a volte in contrasto tra di loro

La polemica sulla cerimonia inaugurale dimostra questa complessità e stratificazione nel caso del Regno Unito. I conservatori privilegiano una interpretazione che vede il Regno Unito come portatore di civiltà nei quattro angoli del mondo attraverso la costruzioni di un impero che, nonostante alcuni eccessi, sostanzialmente arricchiva le popolazioni “indigene” attraverso il trasferimento di competenze tecnologiche e di istituzioni democratiche (vedi le posizioni di alcuni storici revisionisti).

I conservatori poi tendono a enfatizzare, con qualche maggiore fondamento, il ruolo che le élite hanno svolto sia nel difendere i principi di libertà individuale, per esempio contro le aspirazioni assolutiste dei monarchi, sia nel creare imprese che hanno prodotto ricchezza e progresso tecnologico durante la rivoluzione industriale (nonostante questa ricchezza fosse stata a lungo appannaggio dei pochi, in contrasto ai molti che facevano parte della working class).

Tuttavia, una visione differente mette in risalto altri aspetti della storia di nazioni quali Inghilterra, Scozia, Galles, e senza scordare che la storia d’Irlanda è legata strettamente a quella del Regno Unito.

In contrasto alla narrazione conservatrice che esalta esclusivamente il ruolo delle élite, Danny Boyle ha messo in risalto il ruolo che la generale tradizione di “dissenso” ha avuto nel fare del Regno Unito un paese inclusivo e tollerante, e un paese culturalmente vivace. La tradizione del dissenso era rappresentata nella cerimonia dai richiami al movimento delle suffragette, un movimento popolare che reclamava il diritto al voto per le donne.
Ma quello delle suffragette non era che uno dei tanti movimenti popolari e partecipativi (ma non di massa) che nel Regno Unito si organizzavano dal basso per difendere diritti che ora consideriamo inalienabili. Pensiamo al movimento cartista e altri movimenti e correnti di pensiero (incluso il “non-conformismo” delle confessioni protestanti che rifiutano le autorità ecclesiastiche).
Diversi storici recentemente hanno messo in evidenza che se il Regno Unito è un insieme di nazioni inclusive, tolleranti e meritocratiche, lo si deve molto a movimenti libertari, progressisti o radicali, organizzati dal basso per ottenere diritti per tutta la cittadinanza.
E l’inclusività è un altro degli aspetti che Danny Boyle ha voluto esaltare durante l’inaugurazione delle olimpiadi. A un certo punto, si potevano vedere una serie di persone (la maggior parte di colore) che venivano da una nave con i bagagli in mano: un accenno alle migliaia di persone di origini afro-caraibica, indiana e pakistana che nel dopoguerra si trasferirono e iniziarono una nuova vita nel Regno Unito. Ora queste persone e le loro culture sono parte integrante del tessuto socio-culturale delle nazioni del Regno Unito.

In questo filone che ristabilisce l’importanza nei movimenti partecipativi nel creare un paese più giusto e più inclusivo, Danny Boyle non poteva non esaltare una delle istituzioni che rappresenta l’apice delle aspirazioni di molti movimenti libertari o progressisti che si sono succeduti nel Regno Unito: il servizio sanitario nazionale.
L’esaltazione di questa istituzione è molto significativa, perché come spiegavo in questa trasmissione radio (4a puntata), il sistema di assicurazione sociale universale è il lascito della vittoria del Regno Unito nella 2a guerra mondiale; è ciò per cui i cittadini delle nazioni del Regno Unito in fondo avevano sofferto e combattuto. Il risultato più importante della guerra non fu qualche conquista territoriale, ma fu la difesa della democrazia e un sistema di assicurazione sociale che garantiva un tenore di vita decente a tutta la cittadinanza.


Ma se nel Regno Unito esistono almeno due narrative riguardo il senso di essere un paese, in Sardegna purtroppo ancora vediamo una sola narrativa imperante. Uno dei problemi e’ che siamo stati noi sardi a non saperci raccontare la nostra storia, a lasciare che altri ce la raccontassero e ci raccontassero.
Per questo penso sia importante riappropriarci della nostra storia.

Ma nel farlo, è anche importante non rifare gli errori di altri paesi. Per questo dissento con chi parla di una primaria necessità di una nuova classe dirigente in Sardegna, come se da nuove élite seguisse tutto il resto.
Il concetto di “classe dirigente” è del resto un concetto molto italiano, sintomo del fatto che l’Italia in quanto nazione è solo un insieme di interessi di alcuni gruppi chiusi : dietro le élite non c’è niente che tenga unito questo paese se non la retorica, e infatti possiamo dire che l’Italia rimane solo “una espressione geografica”.


Non sono le élite da sole che fanno una nazione, e non sono soprattutto le élite da sole che fanno una nazione giusta, coesa ed equa.
Nella storia sarda, abbiamo diversi esempi di movimenti partecipati che hanno cercato di reclamare istituzioni più giuste, eque e che lavorassero nell’interesse generale della cittadinanza sarda. Pensiamo alla partecipazione popolare alla Sarda Rivoluzione, con il popolo cagliaritano spesso coinvolto direttamente nelle riunioni dei parlamenti sardi. O pensiamo al primo sardismo, o ancora all’esperienza de “Su Populu Sardu”. E non è un caso che furono proprio le élite sarde a fermare lo slancio di questi movimenti partecipati: basti considerare per esempio come la “classe dirigente” sardista (i Bellieni e i Lussu) smorzarono ogni radicalismo e progetto indipendentista della base del Partito Sardo d’Azione di allora.

Ma come dimostra la storia delle nazioni del Regno Unito, è fondamentale per creare una nazione giusta e inclusiva il ruolo che i movimenti partecipativi hanno nell’avanzare politiche nell’interesse generale, e nel creare politiche che abbiano autorevolezza non perché nascono dalle migliori menti delle élite, ma perché provengono da una elaborazione allargata.

Insomma, forse la Sardegna, pur con tutto ciò che la differenzia e la contraddistingue, potrebbe guardare a questo arcipelago di isole, la Gran Bretagna, e prendere alcuni spunti per cercare di realizzare in terra quell’ideale di giustizia e pace espresso dai bellissimi versi di William Blake che hanno aperto la cerimonia di inaugurazione delle olimpiadi:
I will not cease from Mental Fight;
nor shall my Sword sleep in my hand;
till we have built Jerusalem
in Englands green & pleasant Land

Sardi invidiosi, giapponesi pigri e tedeschi ladri


Discutendo della Sardegna capita spesso (troppo spesso) che qualcuno pretenda di chiudere la discussione tirando fuori il “Locos, pocos y mal unidos”.

Con questa frase si vuole dimostrare che esiste un “carattere nazionale” dato per sempre, un carattere che è un destino ineluttabile. Inutile che noi sardi cerchiamo di migliorarci, tutto inutile, perché siamo e saremo sempre “locos, pocos…” e non possiamo sfuggire alla nostra cultura o alla nostra storia.
Un tempo non troppo lontano era di moda dare la colpa alla “razza”, le caratteristiche ereditate geneticamente. Da un riduzionismo genetico oggi si è passato ad un riduzionismo culturale: ci sono culture “inadatte” alla democrazia e a ogni tipo di progresso (vedi la tesi dello “scontro tra civiltà”).

Eppure, uno si potrebbe accorgere che culture che ora vengono ritenute terreno ideale per il progresso economico e sociale erano, non troppo tempo fa’, considerate invece un ostacolo concreto e reale alla democrazia e al progresso sociale ed economico.
Ha-Joon Chang, un economista coreano che insegna a Cambridge, nel libro “Bad Samaritans” intitola un capitolo così: “Giapponesi pigri e tedeschi ladri“. In questo capitolo l’autore dimostra che, prima del loro progresso economico, i giapponesi erano spesso descritti come pigri e incapaci di lealtà (!) e i tedeschi come ladri, non rispettosi delle regole ed eccessivamente emotivi (!). Diversi osservatori stranieri davano la colpa di queste caratteristiche alle specifiche culture di Giappone e Germania: insomma, si diceva che questi paesi erano culturalmente incapaci di progresso sociale ed economico per via della loro cultura.

Diversi economisti affermano invece che certe caratteristiche di una cultura e quello che spesso è definito “carattere nazionale” siano, in parte, il risultato di pratiche economiche e istituzioni che forniscono incentivi a diversi tipi di comportamento.
Se questo è il caso, i cosiddetti “caratteri culturali” possono essere cambiati e migliorati da pratiche virtuose e buone istituzioni (come è capitato in Giappone e Germania nel dopoguerra, per esempio).
Certo che la cultura conta; ma ogni cultura è complessa e sfaccettata: se ci sono elementi che possono giustificare e promuovere pratiche “perverse” (come, per es., l’evasione fiscale), esistono nelle culture elementi che possono essere invece usati per promuovere pratiche virtuose.

In un libro uscito recentemente altri economisti sottolineano l’importanza che buone istituzioni hanno nel determinare il benessere di una nazione: “Istituzioni economiche inclusive [...] sono quelle che permettono e incoraggiano la partecipazione della maggior parte dei cittadini ad attività economiche che mettono a frutto i talenti e le abilità , e che permettono agli individui di fare le scelte che desiderano“.

In contrasto col tanto citato “locos, pocos…” ci sono nella storia della Sardegna tanti esempi di solidarietà tra sardi e di coesione.
Penso, per esempio, alla vicenda dello “sfollamento” durante la II Guerra Mondiale, quando molti sardi condivisero il poco che avevano per aiutare i loro amici e lontani parenti sfollati dalla città colpita dai bombardamenti.
Penso agli esempi di coesione tra diverse categorie sociali sarde durante il triennio della Sarda Rivoluzione.
Non sono gli esempi di solidarietà e di coesione che mancano in Sardegna e nella storia sarda, ma attualmente mancano le buone istituzioni che permettano ai sardi di mettere a frutto il meglio di sé.