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Il senso di essere non-nazionalista
Un interessante intervento è stato pubblicato sul Guardian da parte di un esponente del Scottish National Party (SNP).
http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2009/nov/...
In questo intervento, l’esponente del SNP mette in risalto che il nazionalismo del SNP e del partito gallese Plaid Cymru è molto differente dal nazionalismo di altri partiti come il British National Party e certi partiti di destra in paesi dell'Europa dell'Est. Il nazionalismo di SNP e Plaid è un nazionalismo diverso, basato su una visione inclusiva e pluralista della nazione e non su una visione incentrata sull’identità etnica: per esempio SNP è favorevole all’immigrazione in Scozia.
Questo intervento mi ha portato a fare alcune riflessioni collegate anche ad un post sul forum di iRS in cui si discusse di nazionalismo.
La prima riflessione è sul significato non etimologico (da dizionario) di nazionalismo, ma il significato pratico che questo termine ha acquisito nella politica nel contesto sociale in cui operiamo. In Gran Bretagna ha senso parlare di nazionalismo civico (civic nationalism), cioè un nazionalismo basato sul voler promuovere gli interessi di una nazione intesa come società civile, dove l’appartenenza alla nazione sia basata sulla condivisione di alcuni valori civici come la democrazia, la libertà di espressione, ecc. Il nazionalismo civico non vedrebbe cioè la nazione come una comunità fondata unicamente su una lingua, o una religione o l’appartenenza etnica. Un partito che voglia promuovere la crescita della nazione scozzese non può che essere un partito fondato sull’appartenenza civica in quanto la nazione scozzese, come la Svizzera ad esempio, non potrebbe mai definirsi in base ad una sola lingua (in Scozia si parla l’inglese e il gaelico, tra l’altro due lingue che provengono entrambe da altre nazioni), non esiste una sola etnia (la nazione scozzese nacque infatti dall’unione di irlandesi, sassoni, scoti e pitti) e non esiste una unica religione (esistono una miriade di confessioni protestanti come la presbiteriana, metodista, anglicana, ecc. che convivono con il cattolicesimo).
Tuttavia, è significativo (o sintomatico) che anche potendo parlare pacificamente di nazionalismo civico SNP senta la necessità di smarcarsi da alcune accuse che non rendono merito dell'idea di società aperta che hanno. Insomma, anche nell’ambito britannico il nazionalismo comporta una certa ambiguità che SNP non ha caso sente il dovere di dover chiarificare. Un lettore commenta le considerazioni sul nazionalismo del SNP dicendo: “Then you're not nationalsits; you're self-determinists. There is a big difference” (Dunque non siete nazionalisti: siete per l'auto-determinazione. C'è una grossa differenza).
Posto dunque che in Gran Bretagna è di per sé problematico parlare di nazionalismo civico, ha senso in Sardegna parlare di nazionalismo civico? Ne ha forse etimologicamente (come fanno le persone che immancabilmente citano il dizionario per dimostrare che nazionalismo non è un termine negativo) ma praticamente, per come è stato storicamente declinato il nazionalismo nel nostro orizzonte politico, parlare di nazionalismo civico risulta quasi una contraddizione in termini. Per quanto possiamo cercare di riqualificare il termine, nel nostro orizzonte politico e per la maggior parte delle persone il nazionalismo è inscindibile dalla convinzione di un valore aggiunto, un valore particolare di una data nazione rispetto ad altre nazioni.
Inoltre il nazionalismo è per molti inscindibile da un’idea di nazione fondata su una identità, una identità che può essere declinata definita da alcuni come identità linguistica, da altri come identità culturale, e per altri ancora come identità religiosa o etnica. Il termine nazionalismo perciò porta inevitabilmente un significato: nazionalismo per i più indica la specialità dell’identità nazionale, comunque definita, e ci vorrebbero decenni se non secoli di pratica politica civica per “ripulire” il termine.
La seconda considerazione riguarda il tema dell’identità. Per esempio qualcuno pensa l’identità come una base sicura da cui partire. Altri hanno fatto notare che il termine identità è di per sé restrittivo. L’identità è qualcosa di statico, di dato, qualcosa che si ha (per alcuni si possiede per nascita, o attraverso l’educazione, ecc.).
Io preferirei invece parlare di identificazione: in questo caso si tratta invece di un processo, qualcosa dinamico e in divenire. Una persona decide di identificarsi con determinati valori attraverso la sua esperienza, il suo contatto con una cultura (o come spesso capita, dopo aver conosciuto altre culture uno riconosce o decide di identificarsi con la cultura del luogo dove si è formato). Identificazione non presuppone una identità statica, data una volte per tutte, ma presuppone un percorso individuale che può andare in diverse direzioni, che può mutare.
Dovrebbe essere chiaro a questo punto che l’identificazione dovrebbe essere un fatto personale, che rientra nella sfera individuale. E questo mi sembra un punto molto importatne: se l’identificazione è un fatto personale, non dovrebbe essere, secondo me, materia per l’intervento di uno stato o materia per un programma politico.
Mi spiego meglio: io credo che lo stato non debba essere laico o religioso, lo stato deve essere liberale. La grande idea della filosofia liberale (quella vera, non la parodia che se ne fa in Italia) consiste nel fatto che lo stato deve occuparsi di regolare la convivenza tra cittadini, deve fare in modo che i cittadini possano mettere a frutto il loro potenziale, ma non deve occuparsi della loro sfera privata. Uno stato non deve perciò occuparsi di quello che il cittadino pensa, prova, crede. Lo stato non dovrebbe dunque imporre o favorire una religione ai suoi cittadini. Allo stesso modo, io penso che lo stato non dovrebbe imporre una identità ai suoi cittadini (sia essa culturale, linguistica o religiosa). Penso che proprio perché l’identificazione attiene alla sfera privata, l’identificazione non debba essere il fondamento di un programma politico.
Questo è invece quello che avviene con ogni forma di nazionalismo sardo: l’identità da difendere, da preservare, è sempre alla base di un programma politico.
Questo non vuol dire che la cultura, la lingua e la storia sarda non debbano essere al centro di un programma politico o di governo: dipende da come lo si fa. Cosa dovrebbe fare un programma di governo? Dovrebbe dare gli strumenti ai cittadini per poter liberamente parlare il sardo nelle scuole, nelle professioni e nelle istituzioni se lo desiderano. Quindi io sarei favorevole a creare scuole dove l’insegnamento avvenga esclusivamente in sardo: ma come in altri paesi liberali, lascerei la scelta ai genitori se mandare il figlio alla scuola in sardo o a quella in italiano (o in un altra lingua, perché no?). Allo stesso modo uno stato sardo dovrebbe fornire gli strumenti per poter studiare e conoscere la storia e la cultura sarda. La differenza tra un programma liberale e uno nazionalista è che il programma nazionalista pone l’identità culturale come base fondante dell’appartenenza alla nazione (si è sardi perché si abbraccia l’identità culturale sarda), un programma liberale propone la cultura sarda come una possibile risorsa, un complesso di valori con cui identificarsi, ma l’appartenenza alla nazione non si basa su questa identificazione ma sull’aderenza e rispetto di principi basilari come la democrazia, la meritocrazia,ecc.
L’ultima considerazione che mi sembra importante riguarda proprio la definizione di una cultura. Una cultura non è mai univoca, un blocco unico, ma è inevitabilmente complessa. Tutte le culture ancora vitali nascono da stratificazioni e processi spesso contraddittori o contrastanti. Se prendiamo la cultura sarda, vediamo che sebbene esista un forte senso della comunità e del valore del fare collettivo, esiste anche una tendenza all’individualismo. O se consideriamo il ruolo importantissimo delle donne nella società sarda storica, è anche vero che esistevano processi che tendevano a limitare il della donna ad ambiti ristretti. Insomma, se uno prende la cultura sarda come base per definire quello che vuole essere, esistono diversi aspetti in cui uno potrebbe riconoscersi. Ma qui ritorniamo al contrasto tra identità e identificazione. L’identificazione presuppone che un individuo possa prendere ad esempio certi aspetti della cultura sarda, magari rielaborandoli o adattandoli (come del resto le culture vitali fanno spontaneamente). Identificarsi è perciò un processo per cui uno può prendere alcuni aspetti di una cultura e ritradurli. L’identità invece presuppone una definizione di che cosa è quella cultura, cosa la caratterizza, quali aspetti sono inclusi in essa e quali no.
In conclusione, basare un programma politico o di governo sull’identità o la difesa degli “aspetti identitari” come fa il nazionalismo mi sembra un modo di riproporre una visione statica e veramente poco inclusiva di appartenenza ad una nazione, una visione basata sulla difesa di una identità culturale fossilizzata, la cultura sarda vista come un blocco unico e immutabile, tutto il contrario di quella complessità di processi e stratificazioni di cui ho parlato sopra. Per questo non posso dirmi nazionalista quando mi dico indipendentista
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