Molti indipendentisti sardi pensano che l'uscita del Regno Unito di Gran Bretagna e Nord Irlanda dall'Unione Europea apra la strada per una Scozia indipendente, e addirittura una Irlanda unita.
Io penso che le cose siano molto più complicate.
Nicola Sturgeon e Alex Salmond non erano certo molto felici del risultato del referendum: Scottish National Party ha fatto la campagna per rimanere nell'UE, e i suoi leader si sono spesi molto per convincere non solo gli scozzesi, ma anche i gallesi e gli inglesi, che fosse nell'interesse del Regno Unito rimanere nell'UE. Lo hanno fatto con passione, una passione che è stata visibilmente assente nel leader dei laburisti.
Il giorno dopo le elezioni Nicola Sturgeon non poteva che invocare un secondo referendum per l'indipendenza, dal momento che, come la stessa prima ministra scozzese dice: "la Scozia viene tirata fuori dall'UE contro la sua volontà".
Un secondo referendum si potrebbe svolgere in un contesto molto più complicato.
Nel primo referendum, la Scozia sarebbe potuta diventare un paese indipendente, membro dell'UE, al pari del Regno Unito. Non c'era nessuna garanzia che l'UE accettasse la Scozia, ma questa sembrava una prospettiva plausibile. Una Scozia indipendente dentro l'UE, al pari del Regno Unito, avrebbe garantito libero movimento di merci e persone tra Scozia e Inghilterra, Galles e Nord Irlanda.
Ora che il Regno Unito ha deciso di uscire dall'UE, questo scenario non esiste più. Se la Scozia diventasse indipendente per rimanere (o ri-entrare) nell'UE, ci sarebbe la prospettiva di una vera e propria barriera tra Scozia e Inghilterra, con controlli di passaporto, dogane, dazi, ecc. L'Inghilterra che ha votato per "riprendere controllo sull'immigrazione" non vorrà certo fare sconti ad una Scozia che invece sarebbe aperta al libero movimento di persone dall'UE (notare, questo e lo scenario che si prospetta per il Nord Irlanda).
La prospettiva di avere un confine tra Scozia e Inghilterra, controlli di passaporti, e possibili dazi doganali, sarà un argomento molto forte contro l'indipendenza.
C'è anche da considerare l'aspetto simbolico. Molti scozzesi che hanno votato per l'indipendenza comunque si riconoscono anche come "British": British è un termine che ha connotati inclusivi e positivi, non è appannaggio degli inglesi, e implica riconoscersi in valori incarnati nelle istituzioni britanniche, come "the rule of law" (governo per legge), e così via.
Gli indipendentisti scozzesi erano riusciti a convincere molti scozzesi affezionati alla "britannicità" sostenendo che l'indipendenza avrebbe comunque assicurato una continuità: avrebbero mantenuto la sterlina, avrebbero mantenuto la monarchia, avrebbero mantenuto libertà di movimento e scambi tra Scozia e resto della Gran Bretagna.
Nel quadro attuale tutte queste cose saranno difficili da garantire, e anche simbolicamente, l'indipendenza scozzese significherà una rottura molto più radicale.
Inoltre, per quanto la Scozia abbia una economia aperta all'Europa, l'Inghilterra rimane il partner economico privilegiato. Una Scozia indipendente in Europa e una Inghilterra fuori potrebbe significare perdere un mercato privilegiato e affine (per lingua,consuetudini, ecc.).
Insomma, tutte questi motivi fanno pensare che l'indipendenza scozzese non sarà così scontata, e si capisce perchè Sturgeon nel commentare il referendum sull'UE e lanciare l'idea di un secondo referendum sull'indipendenza non avesse proprio l'espressione serena di chi aspettava questo momento con gusto.
Per quanto riguarda il Nord Irlanda, un attento commentatore come Fintan O'Toole spiega in modo molto efficace che l'uscita dell'UE del Regno Unito significa de-stabilizzare il processo di pace che ha permesso il ritorno di una vita normale nel Nord Irlanda. Destabilizzare questo processo non vuol dire che le truppe britanniche se ne andranno (se ne sono già andate da un pezzo), ma rischia di significare la ripresa di una latente guerra civile.
Il caso della Scozia dimostra quanto l'esistenza di una struttura sovra-nazionale sia l'unica prospettiva per poter pensare e realizzare l'indipendenza di "piccole" nazioni o regioni come Scozia e altre. L'indebolimento e la perdita di consenso di queste istituzioni sovra-nazionali rischia di far ricadere l'Europa in uno scenario di opposti sciovinismi, dove nazioni-stato "riprendono il controllo" sui loro confini, annichilendo le istanze di indipendenza di nazioni "minoritarie" dentro lo stato. Le piccole nazioni senza stato non avranno uno spazio politico dove operare. Per questo sarebbe importante salvare e riformare l'UE, e assicurarsi che riacquisti quell'autorevolezza e consenso che sta perdendo.
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Sweet moderation, desert us not
E così il Regno Unito di Gran Bretagna e Nord Irlanda ha deciso di uscire dall'Unione Europea.
Quello che succederà in Gran Bretagna è davvero una incognita, ma penso che si prospettino tempi difficili per l'Europa. Con tutti i suoi limiti, il progetto di collaborazione e unione europea ha assicurato pace e stabilità all'Europa, e il risorgere di nazionalismi ed esclusivismi in Europa, spesso fomentati da una Russia autoritaria e imperialista, non fa pensare che vedremo molta buona volontà e spirito di collaborazione nel prossimo futuro del nostro continente.
Quello che colpisce nel voto nel Regno Unito è la netta divisione delle opinioni in base alla geografia, e in base allo status sociale.
È evidente la divisione tra Scozia e Inghilterra, e anche il fatto che il Nord Irlanda abbia anch'esso votato per rimanere.
In Scozia i favorevoli per rimanere erano anche oltre il 60% in aree come Glasgow. Il fatto che la Scozia si troverà fuori dall'UE contro la volontà della maggioranza dei suoi cittadini riaprirà la questione di quanto convenga alla Scozia continuare a far parte del Regno Unito, e potrebbe portare ad un secondo referendum per l'indipendenza.
In Nord Irlanda, la prospettiva di rivedere barriere al confine tra Nord e Repubblica d'Irlanda rischia di riaprire tensioni che erano state superate dagli accordi di pace. La libertà di movimento tra Nord Irlanda e la Repubblica d'Irlanda dovrà essere ri-negoziata, e questa instabilità rischia di destabilizzare una situazione che attualmente ha garantito una pace solida. Il fatto che la comunità di estrazione cattolica del Nord Irlanda si trovi, contro la sua volontà, fuori da una Unione che assicura collaborazione e scambio con la Repubblica d'Irlanda, non mancherà certo di creare frizioni in negoziati che si prospettano davvero complicati.
In Inghilterra e Galles i favorevoli all'uscita dall'UE si concentrano soprattutto nelle zone non-urbane, spesso zone di alta deprivazione economica (per esempio, il Nord-Est dell'Inghilterra), mentre i votanti nei centri urbani (Londra fra tutti) sono stati in maggior parte favorevoli a rimanere.
Questa divisione riflette il fatto che i favorevoli a rimanere erano in maggioranza tra persone più giovani, e tra le persone con più alto livello di educazione e reddito.
La campagna referendaria ha evidenziato un livello di rabbia e delusione, giustificato dal fatto che negli ultimi anni dopo la crisi e l'anemica ripresa, i salari sono rimasti bassi, e i servizi carenti, incidendo negativamente sul tenore di vita. Le persone con più bassi livelli di educazione e specializzazione sono state quelle più duramente colpite da questi aspetti. Tuttavia, la narrativa che ha dominato non è stata quella di dare la colpa ai tagli del Welfare istituiti dal governo conservatore, ma invece dare la colpa all'immigrazione "fuori controllo". La narrativa dominante, e quella che si è rivelata vincente, è riassunta nello slogan "Take back control", riprendiamo il controllo; in particolare il controllo sull'immigrazione.
Nella mia esperienza, la stragrande maggioranza degli immigrati in questo paese lavora e contribuisce all'economia, una impressione confermata da studi autorevoli. Del resto gli immigrati vengono nel Regno Unito non attratti dal Welfare (ci sono stati europei che assicurano maggiori benefici), ma vengono perché attratti da un mercato del lavoro dinamico e flessibile. Uscire dall'UE non assicura neanche che il Regno Unito possa bloccare la libertà di movimento delle persone se vuole continuare a commerciare con l'Europa. Per esempio, la Svizzera ha dovuto accettare determinate condizioni sulla libertà di movimento dei cittadini europei in Svizzera.
Il primo ministro Cameron è il più grande sconfitto, e il referendum probabilmente significa la fine della sua carriera politica. Cameron ha le sue colpe. La prima è quella di aver creduto di poter accontentare gli euroscettici dentro il suo partito dandogli varie concessioni.
Cameron avrebbe potuto cercare di dis-innescare la questione immigrazione dall'inizio, sostenendo, come dati dimostrano, che l'immigrazione nel Regno Unito è attualmente sostenibile e apporta benessere. Ha invece cercato di usare questo argomento strumentalmente, per esempio promettendo un limite all'immigrazione durante la campagna elettorale, limite che non ha potuto rispettare. Nel momento in cui ha parlato di limiti all'immigrazione e di restrizioni alla libertà di movimento (un principio cardine dell'UE che Cameron, molto ingenuamente, aveva promesso di rinegoziare), ha legittimato l'idea dell'immigrazione come un problema. Nel legittimare questa idea, ha rafforzato chi proponeva la soluzione radicale, a discapito delle soluzioni di compromesso che Cameron proponeva.
Quello che succederà ora nessuno lo sa, ma il Regno Unito si scopre sempre più diviso geograficamente e nei suoi segmenti sociali (e anche generazionali), e sembra difficile che le crepature rivelate e ingrandite da questa bieca campagna referendaria si possano ricomporre presto. L'Unione Europea diventa sempre più debole e dovrà cercare di ritrovare consenso e autorevolezza, cosa non facile viste le contrastanti pulsioni nazionaliste a destra, e populiste a sinistra, che la dividono.
Voglio pensare che la Gran Bretagna sia ancora quel paese che si ispiri alla moderazione e alla decenza, o, per dirla con Billy Bragg: "sweet moderation, heart of this nation, desert us not..."
Quello che succederà in Gran Bretagna è davvero una incognita, ma penso che si prospettino tempi difficili per l'Europa. Con tutti i suoi limiti, il progetto di collaborazione e unione europea ha assicurato pace e stabilità all'Europa, e il risorgere di nazionalismi ed esclusivismi in Europa, spesso fomentati da una Russia autoritaria e imperialista, non fa pensare che vedremo molta buona volontà e spirito di collaborazione nel prossimo futuro del nostro continente.
Quello che colpisce nel voto nel Regno Unito è la netta divisione delle opinioni in base alla geografia, e in base allo status sociale.
È evidente la divisione tra Scozia e Inghilterra, e anche il fatto che il Nord Irlanda abbia anch'esso votato per rimanere.
In Scozia i favorevoli per rimanere erano anche oltre il 60% in aree come Glasgow. Il fatto che la Scozia si troverà fuori dall'UE contro la volontà della maggioranza dei suoi cittadini riaprirà la questione di quanto convenga alla Scozia continuare a far parte del Regno Unito, e potrebbe portare ad un secondo referendum per l'indipendenza.
In Nord Irlanda, la prospettiva di rivedere barriere al confine tra Nord e Repubblica d'Irlanda rischia di riaprire tensioni che erano state superate dagli accordi di pace. La libertà di movimento tra Nord Irlanda e la Repubblica d'Irlanda dovrà essere ri-negoziata, e questa instabilità rischia di destabilizzare una situazione che attualmente ha garantito una pace solida. Il fatto che la comunità di estrazione cattolica del Nord Irlanda si trovi, contro la sua volontà, fuori da una Unione che assicura collaborazione e scambio con la Repubblica d'Irlanda, non mancherà certo di creare frizioni in negoziati che si prospettano davvero complicati.
In Inghilterra e Galles i favorevoli all'uscita dall'UE si concentrano soprattutto nelle zone non-urbane, spesso zone di alta deprivazione economica (per esempio, il Nord-Est dell'Inghilterra), mentre i votanti nei centri urbani (Londra fra tutti) sono stati in maggior parte favorevoli a rimanere.
Questa divisione riflette il fatto che i favorevoli a rimanere erano in maggioranza tra persone più giovani, e tra le persone con più alto livello di educazione e reddito.
La campagna referendaria ha evidenziato un livello di rabbia e delusione, giustificato dal fatto che negli ultimi anni dopo la crisi e l'anemica ripresa, i salari sono rimasti bassi, e i servizi carenti, incidendo negativamente sul tenore di vita. Le persone con più bassi livelli di educazione e specializzazione sono state quelle più duramente colpite da questi aspetti. Tuttavia, la narrativa che ha dominato non è stata quella di dare la colpa ai tagli del Welfare istituiti dal governo conservatore, ma invece dare la colpa all'immigrazione "fuori controllo". La narrativa dominante, e quella che si è rivelata vincente, è riassunta nello slogan "Take back control", riprendiamo il controllo; in particolare il controllo sull'immigrazione.
Nella mia esperienza, la stragrande maggioranza degli immigrati in questo paese lavora e contribuisce all'economia, una impressione confermata da studi autorevoli. Del resto gli immigrati vengono nel Regno Unito non attratti dal Welfare (ci sono stati europei che assicurano maggiori benefici), ma vengono perché attratti da un mercato del lavoro dinamico e flessibile. Uscire dall'UE non assicura neanche che il Regno Unito possa bloccare la libertà di movimento delle persone se vuole continuare a commerciare con l'Europa. Per esempio, la Svizzera ha dovuto accettare determinate condizioni sulla libertà di movimento dei cittadini europei in Svizzera.
Il primo ministro Cameron è il più grande sconfitto, e il referendum probabilmente significa la fine della sua carriera politica. Cameron ha le sue colpe. La prima è quella di aver creduto di poter accontentare gli euroscettici dentro il suo partito dandogli varie concessioni.
Cameron avrebbe potuto cercare di dis-innescare la questione immigrazione dall'inizio, sostenendo, come dati dimostrano, che l'immigrazione nel Regno Unito è attualmente sostenibile e apporta benessere. Ha invece cercato di usare questo argomento strumentalmente, per esempio promettendo un limite all'immigrazione durante la campagna elettorale, limite che non ha potuto rispettare. Nel momento in cui ha parlato di limiti all'immigrazione e di restrizioni alla libertà di movimento (un principio cardine dell'UE che Cameron, molto ingenuamente, aveva promesso di rinegoziare), ha legittimato l'idea dell'immigrazione come un problema. Nel legittimare questa idea, ha rafforzato chi proponeva la soluzione radicale, a discapito delle soluzioni di compromesso che Cameron proponeva.
Quello che succederà ora nessuno lo sa, ma il Regno Unito si scopre sempre più diviso geograficamente e nei suoi segmenti sociali (e anche generazionali), e sembra difficile che le crepature rivelate e ingrandite da questa bieca campagna referendaria si possano ricomporre presto. L'Unione Europea diventa sempre più debole e dovrà cercare di ritrovare consenso e autorevolezza, cosa non facile viste le contrastanti pulsioni nazionaliste a destra, e populiste a sinistra, che la dividono.
Voglio pensare che la Gran Bretagna sia ancora quel paese che si ispiri alla moderazione e alla decenza, o, per dirla con Billy Bragg: "sweet moderation, heart of this nation, desert us not..."
"it's the economy"
Parlando con altri sardi che simpatizzano con l'idea di una Sardegna indipendente, spesso si finisce a discutere del perché gli indipendentisti non vengano ritenuti credibili.
Uno dei motivi tra gli altri (vedi questo articolo, che condivido) è l'economia: gli indipendentisti non hanno mai presentato una proposta credibile e articolata di come creare prosperità in Sardegna.
A questa osservazione qualcuno ribatte che programmi credibili sono stati anche presentati, con proposte serie sulle bonifiche, il turismo culturale, ecc., ma i sardi non credono a queste proposte perché "colonizzati culturalmente", e quindi scettici sulle loro reali possibilità.
Questa idea del colonialismo culturale non mi ha mai convinto molto, anche perché si presta ad una visione paternalistica in cui ci sarebbero persone "colonizzate" non in grado di capire i loro veri interessi. In genere, parto dall'idea che le persone siano in grado di ragionare da sole e capire i propri interessi.
Il problema è invece -secondo me- che molti cittadini di Sardegna si rendono conto che bonifiche, turismo culturale ecc. sono solo elementi secondari di una economia. Una economia prospera si fonda su altre premesse.
A sentire diversi economisti, una delle premesse di una economia prospera è la manifattura e l'industria: ovvero la produzione di beni che vendono e che altri paesi comprano. Paesi prosperi come Svizzera, Irlanda, Svezia e Finlandia basano la loro prosperità sull'industria: questi sono tra i paesi più industrializzati al mondo se si considera la produzione pro-capite.
La manifattura e l'industria possono essere la base per una economia prospera perché è possibile produrre più efficientemente grazie a innovazione e progresso tecnologico, e perché l'innovazione dei prodotti permette di continuare ad avere una presenza nel mercato. La Svizzera, per es., si specializza in produzione di macchinari avanzati e prodotti per l'industria chimica.
L'altra considerazione importante, è che anche settori come la finanza e il terziario (servizi ecc.), sono sostenuti da una manifattura prospera. L' "economia della conoscenza", ovvero tecnologie informatiche, design, ecc., sono sostenute in primo luogo dal servire la produzione e la manifattura. Una manifattura solida crea un indotto che favorisce altri settori.
Cosa non secondaria, grazie alla necessità di operai specializzati, la manifattura offre anche la possibilità di mobilità sociale: anche persone che non hanno potuto studiare possono aspirare a salari elevati diventando operai specializzati.
Quindi il problema nel presentare un programma economico credibile per la Sardegna sarebbe quello di individuare e sostenere l'industria e la manifattura sarde. Ovviamente una industria solida ha bisogno di infrastruttura (trasporti, energia) e supporto (conoscenze, specializzazione, ricerca e sviluppo). Queste cose non accadono dall'oggi al domani, ma possono essere aiutate da investimenti esterni.
Piccoli paesi come l'Irlanda e Singapore sono diventati prosperi e industrializzati attraverso politiche attente che hanno attratto investimenti dall'estero e dalle multinazionali. Al contrario di altri paesi, le politiche di paesi come Irlanda e Singapore sono regolate per assicurare che gli investimenti dall'esterno beneficino anche il paese che ospita le multinazionali.
Per esempio, le politiche della Repubblica d'Irlanda hanno permesso di attrarre investimenti in settori chiave come l'elettronica, la produzione farmaceutica, e quella di software. Inoltre, l'Irlanda richiede agli investitori di soddisfare criteri di prestazione: per esempio, gli incentivi offerti dal governo irlandese aumentano a seconda di quanto gli investimenti esterni assicurano la creazione di competenze locali, investono localmente in ricerca e sviluppo, e creano un indotto. Con queste politiche mirate, l'Irlanda è passata dall'essere un paese senza una industria degna di questo nome, ad essere uno dei maggiori produttori industriali in Europa. Nonostante la crisi finanziaria, l'Irlanda ha mantenuto queste politiche industriali mirate ed è riuscita a uscire dalla crisi.
Insomma, i movimenti indipendentisti che si propongono di governare la Sardegna dovrebbero cominciare a trattare questi temi in modo più articolato e concreto. Per farlo dovrebbero uscire dal recinto in cui si sono chiusi dominato da discorsi dominati da temi come "coscienza nazionale", e cominciare a parlare di economia.
Dovrebbero poi imparare dagli attori locali: gli imprenditori, i banchieri, i produttori, ecc., oltre che gli operai. Dovrebbero infine coinvolgere questi attori nella creazione di proposte per una industria che serva alla prosperità dei cittadini di Sardegna. Inutile calare piani industriali pensati a tavolino dalla "classe dirigente" (il fallimento dei Piani di Rinascita dovrebbe servire da lezione): una politica industriale ha bisogno di politiche partecipative e democratiche che diano credito agli attori locali.
L'Irlanda e Singapore sono stati sovrani, al contrario della Sardegna. Ma il compito degli indipendentisti dovrebbe essere quello di usare la limitata autonomia della Sardegna per creare politiche industriali. E se l'autonomia non lo permette, dovrebbero richiedere maggiori poteri mirati ad una politica industriale. Simili politiche economiche giustificano la necessità di maggiore indipendenza e sovranità della Sardegna: solo un governo vicino ai produttori sardi può capire e garantire le loro necessità. Ed ecco che la migliore giustificazione per l'indipendenza della Sardegna è che questa offrirebbe una strada per la prosperità.
Uno dei motivi tra gli altri (vedi questo articolo, che condivido) è l'economia: gli indipendentisti non hanno mai presentato una proposta credibile e articolata di come creare prosperità in Sardegna.
A questa osservazione qualcuno ribatte che programmi credibili sono stati anche presentati, con proposte serie sulle bonifiche, il turismo culturale, ecc., ma i sardi non credono a queste proposte perché "colonizzati culturalmente", e quindi scettici sulle loro reali possibilità.
Questa idea del colonialismo culturale non mi ha mai convinto molto, anche perché si presta ad una visione paternalistica in cui ci sarebbero persone "colonizzate" non in grado di capire i loro veri interessi. In genere, parto dall'idea che le persone siano in grado di ragionare da sole e capire i propri interessi.
Il problema è invece -secondo me- che molti cittadini di Sardegna si rendono conto che bonifiche, turismo culturale ecc. sono solo elementi secondari di una economia. Una economia prospera si fonda su altre premesse.
A sentire diversi economisti, una delle premesse di una economia prospera è la manifattura e l'industria: ovvero la produzione di beni che vendono e che altri paesi comprano. Paesi prosperi come Svizzera, Irlanda, Svezia e Finlandia basano la loro prosperità sull'industria: questi sono tra i paesi più industrializzati al mondo se si considera la produzione pro-capite.
La manifattura e l'industria possono essere la base per una economia prospera perché è possibile produrre più efficientemente grazie a innovazione e progresso tecnologico, e perché l'innovazione dei prodotti permette di continuare ad avere una presenza nel mercato. La Svizzera, per es., si specializza in produzione di macchinari avanzati e prodotti per l'industria chimica.
L'altra considerazione importante, è che anche settori come la finanza e il terziario (servizi ecc.), sono sostenuti da una manifattura prospera. L' "economia della conoscenza", ovvero tecnologie informatiche, design, ecc., sono sostenute in primo luogo dal servire la produzione e la manifattura. Una manifattura solida crea un indotto che favorisce altri settori.
Cosa non secondaria, grazie alla necessità di operai specializzati, la manifattura offre anche la possibilità di mobilità sociale: anche persone che non hanno potuto studiare possono aspirare a salari elevati diventando operai specializzati.
Quindi il problema nel presentare un programma economico credibile per la Sardegna sarebbe quello di individuare e sostenere l'industria e la manifattura sarde. Ovviamente una industria solida ha bisogno di infrastruttura (trasporti, energia) e supporto (conoscenze, specializzazione, ricerca e sviluppo). Queste cose non accadono dall'oggi al domani, ma possono essere aiutate da investimenti esterni.
Piccoli paesi come l'Irlanda e Singapore sono diventati prosperi e industrializzati attraverso politiche attente che hanno attratto investimenti dall'estero e dalle multinazionali. Al contrario di altri paesi, le politiche di paesi come Irlanda e Singapore sono regolate per assicurare che gli investimenti dall'esterno beneficino anche il paese che ospita le multinazionali.
Per esempio, le politiche della Repubblica d'Irlanda hanno permesso di attrarre investimenti in settori chiave come l'elettronica, la produzione farmaceutica, e quella di software. Inoltre, l'Irlanda richiede agli investitori di soddisfare criteri di prestazione: per esempio, gli incentivi offerti dal governo irlandese aumentano a seconda di quanto gli investimenti esterni assicurano la creazione di competenze locali, investono localmente in ricerca e sviluppo, e creano un indotto. Con queste politiche mirate, l'Irlanda è passata dall'essere un paese senza una industria degna di questo nome, ad essere uno dei maggiori produttori industriali in Europa. Nonostante la crisi finanziaria, l'Irlanda ha mantenuto queste politiche industriali mirate ed è riuscita a uscire dalla crisi.
Insomma, i movimenti indipendentisti che si propongono di governare la Sardegna dovrebbero cominciare a trattare questi temi in modo più articolato e concreto. Per farlo dovrebbero uscire dal recinto in cui si sono chiusi dominato da discorsi dominati da temi come "coscienza nazionale", e cominciare a parlare di economia.
Dovrebbero poi imparare dagli attori locali: gli imprenditori, i banchieri, i produttori, ecc., oltre che gli operai. Dovrebbero infine coinvolgere questi attori nella creazione di proposte per una industria che serva alla prosperità dei cittadini di Sardegna. Inutile calare piani industriali pensati a tavolino dalla "classe dirigente" (il fallimento dei Piani di Rinascita dovrebbe servire da lezione): una politica industriale ha bisogno di politiche partecipative e democratiche che diano credito agli attori locali.
L'Irlanda e Singapore sono stati sovrani, al contrario della Sardegna. Ma il compito degli indipendentisti dovrebbe essere quello di usare la limitata autonomia della Sardegna per creare politiche industriali. E se l'autonomia non lo permette, dovrebbero richiedere maggiori poteri mirati ad una politica industriale. Simili politiche economiche giustificano la necessità di maggiore indipendenza e sovranità della Sardegna: solo un governo vicino ai produttori sardi può capire e garantire le loro necessità. Ed ecco che la migliore giustificazione per l'indipendenza della Sardegna è che questa offrirebbe una strada per la prosperità.
Pesare le parole: antisemitismo e linguaggio
È triste constatare che in Europa siano in aumento gli atti di antisemitismo, ed è piuttosto deprimente sentire persone che si riconoscono come ebree dire di non sentirsi sicure anche in paesi aperti e liberali come la Gran Bretagna.
In Gran Bretagna quantomeno c'è attenzione a questo problema e al fatto che certi atteggiamenti e certo linguaggio possono alimentare l'antisemitismo. Recentemente, per esempio, i laburisti sono stati chiamati a castigare propri esponenti che hanno espresso opinioni che rivelavano stereotipi e pregiudizi contro gli ebrei.
Purtroppo in Sardegna sembra che questa sensibilità al tema non sia ancora presente, e non lo sia nemmeno nella sinistra che, in teoria, dovrebbe essere più attenta.
In questo articolo del Manifesto Sardo, per esempio, l'autore sostiene che sia accettabile e opportuno definirsi e parlare di "antisionismo".
Il problema, come sostiene quest'altro articolo, è che usare il termine "anti-sionismo" per dichiarare la propria opposizione alle politiche dello stato di Israele rischia di alimentare l'idea tutta "complottista" di un movimento sionista internazionale, e magari alimentare idee secondo cui gli ebrei manovrerebbero la finanza e la politica internazionale, così alimentando stereotipi che si sperava fossero stati ormai andati in disuso.
Non esiste più un movimento sionista, e sionismo significa cose molto diverse: parlare di anti-sionismo è quindi solo strumentale -che uno ne sia consapevole o meno- ad alimentare pregiudizi, e fa specie che la sinistra che si auto-dichiara progressista non riesca a vedere il pericolo nell'usare un linguaggio non solo inadeguato, ma pericoloso.
È più che necessario per un progressista o un liberale opporsi a certe politiche dello stato di Israele, specie dal momento che questo stato sta, da diversi anni, prendendo una deriva sempre più segregazionista ed espansionista, tra l'altro tradendo molti degli ideali progressisti che avevano caratterizzato la nascita stessa dello stato di Israele. È però pericoloso e inaccettabile usare un linguaggio che alimenta pregiudizi e può servire a negare lo stesso diritto di esistere dello stato israeliano.
Citando Nanni Moretti, "le parole sono importanti", e pesarle è un dovere di chi vuole fare politica.
In Gran Bretagna quantomeno c'è attenzione a questo problema e al fatto che certi atteggiamenti e certo linguaggio possono alimentare l'antisemitismo. Recentemente, per esempio, i laburisti sono stati chiamati a castigare propri esponenti che hanno espresso opinioni che rivelavano stereotipi e pregiudizi contro gli ebrei.
Purtroppo in Sardegna sembra che questa sensibilità al tema non sia ancora presente, e non lo sia nemmeno nella sinistra che, in teoria, dovrebbe essere più attenta.
In questo articolo del Manifesto Sardo, per esempio, l'autore sostiene che sia accettabile e opportuno definirsi e parlare di "antisionismo".
Il problema, come sostiene quest'altro articolo, è che usare il termine "anti-sionismo" per dichiarare la propria opposizione alle politiche dello stato di Israele rischia di alimentare l'idea tutta "complottista" di un movimento sionista internazionale, e magari alimentare idee secondo cui gli ebrei manovrerebbero la finanza e la politica internazionale, così alimentando stereotipi che si sperava fossero stati ormai andati in disuso.
Non esiste più un movimento sionista, e sionismo significa cose molto diverse: parlare di anti-sionismo è quindi solo strumentale -che uno ne sia consapevole o meno- ad alimentare pregiudizi, e fa specie che la sinistra che si auto-dichiara progressista non riesca a vedere il pericolo nell'usare un linguaggio non solo inadeguato, ma pericoloso.
È più che necessario per un progressista o un liberale opporsi a certe politiche dello stato di Israele, specie dal momento che questo stato sta, da diversi anni, prendendo una deriva sempre più segregazionista ed espansionista, tra l'altro tradendo molti degli ideali progressisti che avevano caratterizzato la nascita stessa dello stato di Israele. È però pericoloso e inaccettabile usare un linguaggio che alimenta pregiudizi e può servire a negare lo stesso diritto di esistere dello stato israeliano.
Citando Nanni Moretti, "le parole sono importanti", e pesarle è un dovere di chi vuole fare politica.
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